E la «rude razza romana» va all’assalto del sistema

scritto da Gianni Barbacetto il .

06.10.2005  L'inchiesta vecchio stile
E la «rude razza romana» va all’assalto del sistema
Rcs, Antonveneta, Bnl. Una composita compagnia di banche di provincia e immobiliaristi d’assalto sfida il cuore della finanza del Nord. Ecco come Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto sono diventati i nuovi campioni del (debole) capitalismo italiano. E chi sono i loro amici. A destra. E a sinistra
di Gianni Barbacetto



La rude razza romana ha iniziato l’assalto al sistema. Due grandi banche, Antonveneta e Bnl, sono sotto scalata da parte di una composita compagnia di finanzieri di provincia e d’immobiliaristi romani, che dicono di volerle salvare dagli stranieri (gli olandesi di Abn Amro, i baschi del Banco di Bilbao). E la Rcs , editrice del principale quotidiano italiano, il Corriere della sera, è sotto attacco da parte di Stefano Ricucci, il più nuovo di quegli immobiliaristi. Con Danilo Coppola e Giuseppe Statuto forma un trio del mattone che sembra aver rivestito i panni delle truppe d’assalto. Dietro di loro si muovono i battaglioni di banchieri come Gianpiero Fiorani, presidente e amministratore delegato della Popolare di Lodi; di manager come Giovanni Consorte, il boss di Unipol; di finanzieri come Emilio Gnutti, già protagonista nel 1999 della madre di tutte le nuove scalate, l’opa su Telecom.
È l’attacco al cuore dello stato di cose presente. L’Italia vive una crisi strutturale, la grande industria è in declino, la piccola ha perso competitività, le Grandi Famiglie del Nord sono al crepuscolo, non c’è più un Enrico Cuccia a fare da centro del sistema. Dopo la «rude razza padana» di Chicco Gnutti e dei suoi amici, che tanto era piaciuta a Massimo D’Alema, ecco s’avanza la rude razza romana dei nuovi padroni del mattone. Espugnata Rcs, potrebbe cadere Mediobanca. E l’obiettivo seguente sarebbero le Generali, la cassaforte più preziosa del sistema.
Fantascienza, per ora. Ma intanto Ricucci annuncia di avere in mano (quando scriviamo) almeno il 18,5 per cento di Rcs e insidia i fragili equilibri del patto di sindacato che tiene per ora insieme, dentro Rcs, i rappresentanti di quella che fu l’ala nobile del capitalismo italiano, più qualche nuovo arrivato.
Le prime reazioni sono state dure: chi è mai questo Ricucci, da dove viene, come ha fatto i soldi? Le maldicenze sulle origini della razza mattona e le domande sulle fortune degli immobiliaristi si sono moltiplicate. I più benevoli sussurrano che sono figli dello scudo, riferendosi al cosiddetto «scudo fiscale» che dal 2001 ha permesso il rientro anonimo e a buon mercato dei capitali nascosti all’estero. I più malevoli accennano a loschi traffici di ogni sorta, ma senza portare mai uno straccio di prova. Le domande sono rimbalzate dai salotti buoni alle pagine di giornali come il Sole 24 ore, il Mondo, L’espresso. Con seguito di proteste, rettifiche, querele.
Anche il presidente di Confindustra Luca Cordero di Montezemolo, all’assemblea annuale dell’associazione, il 26 maggio, ha toccato l’argomento, quando a proposito della «malintesa battaglia per l’italianità delle banche», ha detto: «Ne sono seguiti incontri più o meno riservati presso le autorità, manovre incrociate, emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi, rastrellamento di azioni sul mercato, scalate clandestine, sospetti e accuse di insider trading, denunce di azioni di concerto, interventi della magistratura. Niente di più lontano da produzione e lavoro».

Gastone e Cenerentole. «Aridaje!», ripete Ricucci ogni volta che sente parlare di «capitali misteriosi» e ogni volta che gli viene chiesto come abbia fatto i soldi. E poi parte in quarta a spiegare la sua storia di mattoni e successo, aiutato da una fidanzata esuberante e comunicativa come Anna Falchi, che il prossimo 2 luglio, all’Argentario, diverrà sua moglie. «Tra di noi ci chiamiamo Cenerentola e Gastone», ha confidato Anna Falchi a Monica Setta per Gente. «Veniamo dalla stessa esperienza: Stefano ha cominciato come odontotecnico, io sono cresciuta con la mamma e mio fratello in un Paese come l’Italia che mi era sconosciuto. Non è stato facile per nessuno dei due». Poi la nipote del pastore luterano finlandese cresciuta in Italia senza padre è diventata attrice e ha conquistato le copertine. E il ragazzo di borgata è diventato ricco e famoso. «Sì, lui è Gastone. Gastone Paperone, quello dei fumetti che fa diventare oro tutto ciò che tocca».
Come Gastone, evidentemente, deve avere una fortuna sfacciata. Perché davvero non è facile arrivare a 43 anni e possedere, secondo quanto dichiara, un patrimonio di oltre 2 miliardi di euro: 910 milioni in immobili e circa 1.400 milioni in partecipazioni (tra cui 450 in Rcs, 420 in Antonveneta, 450 in Bnl, 50 in Bipielle). Stefano Ricucci, infatti, non nasce ricco. Suo padre è autista dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, sua madre è casalinga. Dopo il diploma, lavora come odontotecnico in un laboratorio dentistico di Centocelle. Per arrotondare, in estate fa il cameriere.
La leggenda delle origini narra del primo affare immobiliare a 19 anni: un terreno della madre scambiato con tre appartamenti; poi racconta di compravendite di negozi a Zagarolo, che a molti italiani ricorda per lo più «l’ultimo tango» di Franco e Ciccio. Nel 1984 il giovane Stefano fonda la sua prima società: per la gestione di ambulatori e laboratori clinici, lui che era solo l’ultimo dei tecnici. L’anno seguente, il primo affare di peso: acquista un immobile a San Cesareo, alle porte di Roma, e lo rivende – racconta – guadagnando 246 milioni di lire. Da allora non si ferma più. Da Zagarolo e Grottaferrata passa a Roma e Milano.
Mente veloce, gran lavoratore, uomo fortunato. Ma la sua fortuna più grande è incrociare la bolla immobiliare: in un’Italia in cui l’industria declina, il mattone cresce ininterrottamente di valore; e il cambio di regime monetario con l’arrivo dell’euro aumenta la propensione agli investimenti immobiliari (anche perché costringe a mettere in circolo i soldi indichiarabili). Negli ultimi anni (ottobre 1998-ottobre 2004, secondo dati di Nomisma) le abitazioni incrementano il loro valore in media del 65 per cento, gli uffici del 59 per cento, i negozi di oltre il 57 per cento. Ma i palazzi di pregio a Milano e Roma in alcuni casi raddoppiano o addirittura triplicano il loro valore. Ricucci, per esempio, compra nel 1999 un centro residenziale a Talenti, vicino a Montesacro, per 17 miliardi di lire e lo rivende subito dopo a 50. L’anno dopo per 37 miliardi compra Palazzo Bonaparte, in piazza Venezia a Roma, e lo rivende a 90. A Milano possiede un palazzo in via Borromei valutato 120 milioni di euro, un altro in piazza Durante che vale 118 milioni, un terzo nella centralissima via Silvio Pellico, a ridosso della Galleria Vittorio Emanuele, che viene valutato 60 milioni.
Lavora soprattutto con le banche, stringe rapporti e alleanze, compra e vende grandi immobili, realizza operazioni di vaste dimensioni. Fino a diventare il re della rude razza romana. Ha fatto affari con la Fingruppo di Chicco Gnutti e con la Capitalia di Cesare Geronzi, restando poi con entrambi in rapporti non proprio affettuosi, secondo i bene informati. Ma realizzando comunque ottime plusvalenze.
Quando, nel 1989, ha fondato la sua holding, l’ha chiamata Magiste, sommando le prime lettere dei nomi dei suoi genitori, Matteo e Gina, e del suo, Stefano: tutto casa e famiglia. Ma l’ha domiciliata in Lussemburgo, al riparo da sguardi indiscreti. Si attornia solo di uomini fidati, tra cui Luca Pompei, un giovanotto di 30 anni, nipote di Giorgio Almirante e di Donna Assunta, che è di casa a casa Ricucci. E nelle sue operazioni – non tutte proprio un esempio di trasparenza – entrano finanziamenti misteriosi (come quello da 1,8 miliardi di euro ottenuto in Lussemburgo: in cambio di quali garanzie patrimoniali? e messe a disposizione da chi?) e teste di legno, come nella migliore tradizione italiana. Il signor Ezio Candela, per esempio, è un pensionato ottantunenne esperto in fallimenti (ne ha sei sul groppone) a cui Ricucci il 30 dicembre 2004, per la cifra di soli mille euro, ha passato la società Immobiliare il Corso. Ovvero una scatola in cui erano passati immobili di Ricucci venduti a Gnutti, poi finita alla banca di Fiorani. Candela gli era già stato utile, come ricostruisce Vittorio Malagutti sull’Espresso, quando, indossati i panni dell’amministratore unico, aveva preparato il passaggio al curatore fallimentare di un’azienda del primo Ricucci, il centro odontostomatologico Arcadia.
Archiviati i denti e raggiunta la ricchezza, ora, con addosso una nuvola di Rush (Gucci eau de toilette), sogna il riconoscimento sociale e insegue la promozione culturale. Una laurea se l’è già presa, in Economia, presso una certa Clayton University di San Marino, non proprio la Sorbona. Dove una laurea l’ha portata a casa anche Anna Falchi, in Letteratura. Adesso il suo obiettivo è diventare cavaliere del lavoro. Ci tiene proprio. «Qual è il problema? Lavoro da 23 anni», ha dichiarato al settimanale Economy, «e per diventare cavaliere ne occorrono 20. Ho un gruppo che paga le tasse in Italia. E ho creato ricchezza...». E ha aggiunto tenero: «Io chiedo solo una chance. Chiedo solo di essere rispettato per il lavoro che faccio. È troppo?».
«È il re della matematica», dice di lui Anna Falchi, «a volte provo a fargli fare a mente dei calcoli complicatissimi e non sbaglia mai». Per il resto, vita tranquilla. «Stiamo in casa e io mi metto ai fornelli per lui». Piatto preferito: lasagne al ragù. «Non frequentiamo i salotti mondani né i circoli esclusivi, ma solo gli amici di sempre»: l’attrice Lorenza Indovina e lo scrittore Niccolò Ammaniti, per esempio, «che hanno deciso di sposarsi dopo di noi»; o il presidente della Confcommercio Sergio Billè, probabile testimone di nozze.
Tra amici, Stefano si lascia andare e fa il simpatico: «Con quell’accento romano e le sue freddure sembra Alberto Sordi», racconta Anna Falchi. Che ama cucinare e vuole che il marito faccia il maschio, ma pretende un suo ruolo anche fuori dalla cucina: «Non per niente mi chiamano Lady Finanza: quando siamo a cena intervengo e so quello che dico». Per ora si accontenta di fare la produttrice cinematografica, ha fondato una società che si chiama A-Movie Productions e vuole realizzare un film da Oscar con Dustin Hoffman. Domani si vedrà.
Chi non lo ama dipinge Ricucci come uno dei tanti operatori spregiudicati che riescono a emergere in tempi di crisi, senza aver creato nuove imprese o nuovi prodotti; spalleggiati e utilizzati da banchieri altrettanto spregiudicati, hanno solo spostato in Borsa, drogando il listino, i soldi guadagnati col mattone. «Ricucci non ha alcun fascino, zero magnetismo. Neppure la fierezza, tutta siciliana, di un altro che si è fatto dal niente come Salvatore Ligresti», racconta un grande banchiere che ha avuto a che fare con lui («Ma mi raccomando, niente nomi»).
Lui ripete fino alla noia di essersela invece meritata, la sua fortuna. E che «dietro Ricucci c’è solo Ricucci, che ha fatto strada lavorando duramente e grazie a tanti amici che hanno creduto in lui. Punto». Siccome poi nei salotti buoni non lo invitano, è entrato di forza in uno dei migliori, quello di Rcs, buttando sul piatto una cifra valutata tra i 450 e i 700 milioni di euro. E subito tutti a interrogarsi: perché vuole il Corriere della sera? chi c’è dietro? di chi sta facendo il cavallo di Troia? La sua risposta è la solita: dietro Ricucci c’è solo Ricucci, io non sono un prestanome di lusso. Quando la scalata era solo agli inizi, del resto, a proposito dei giornali aveva rilasciato una dichiarazione che oggi è da rileggere attentamente: «Non ce l’ho con chi scrive. Mi dà fastidio però la malafede, la censura sui fatti, i conflitti di interesse tra editori e giornalisti. Chiedo rispetto. E regole uguali per tutti: dagli Agnelli a Ricucci. Perché si smetta di distribuire patenti di credibilità a chi vende scarpe, negandole a chi vende immobili». Capito? Ma comunque, dato che i protagonisti di questa storia non aiutano a capire molto di più, non resta che raccogliere indizi, seguire piste. A cominciare dal volo del calabrone.

Il patto del calabrone. Il patto di sindacato che scade nel 2007 e controlla il 58 per cento di Rcs è un calabrone: non si sa come riesca a volare, eppure vola. Tiene insieme, infatti, 15 soggetti che hanno scarse motivazioni a stare insieme. Banchieri e imprenditori di quella che una volta era l’ala nobile del capitalismo italiano (Mediobanca, Generali, Fiat, Pirelli, Pesenti, Gemina, Edison, Mittel, Merloni, Intesa, Capitalia...), più un paio di nuovi arrivati accettati non senza fatica (Diego Della Valle e Salvatore Ligresti). È questo calabrone che gestisce il Corriere, magari anche stando a guardare attonito chi – come Francesco Gaetano Caltagirone, palazzinaro romano di più antica tradizione – stava fuori dal patto, ma tenendosi stretto un bel 2 per cento di azioni Rcs che avrebbe voluto far contare di più. Con questo calabrone che ronza ma non disturba, il Corriere negli ultimi anni è andato per la sua strada, cambiando più volte direttore ma dimostrando nella sostanza di essere difficilmente condizionabile dai poteri. Per quanto tempo ancora, però, riuscirà a volare il calabrone?
Un indizio da cui partire è la questione dei prezzi. Il titolo Rcs, spinto dagli acquisti, è cresciuto di oltre l’80 per cento in un anno, raggiungendo una quotazione 60 volte gli utili netti del 2004, mentre la media europea di settore è di 16 volte. Insomma: Ricucci, malgrado le sue ripetute dichiarazioni in linguaggio tuttoborsaefinanza, ha comprato a prezzi fuori mercato, spendendo più di 450 milioni di euro al 6 giugno, quando ha annunciato di avere in tasca il 18,5 per cento.
«Sa cosa vuol dire Rcs? Vuol dire Ricucci-Coppola-Statuto». È solo una battuta, ma siccome circola dentro le mura del Corriere della sera fa un certo effetto. E allora la prima pista da seguire per capire che cosa sta succedendo è quella degli immobiliaristi. Ricucci sta rastrellando titoli per Caltagirone, si diceva nella prima fase della scalata, magari contando sull’aiuto, dall’interno del patto, di Salvatore Ligresti e del suo nuovo mentore, il banchiere di Capitalia Cesare Geronzi. Ma poi Caltagirone, il 26 maggio, ha annunciato di aver venduto il suo 2 per cento, realizzando una bella plusvalenza di 38 milioni, ma soprattutto lanciando un segnale: io non c’entro con questi nuovi arrivati della razza mattona. (A meno che non sia tutta una finta, un depistaggio per non scoprirsi come il vero scalatore).
La seconda pista passa per il banchiere preferito da Ricucci, cioè quel Gianpiero Fiorani che è il vero regista delle altre due scalate in corso, su Antonveneta e su Bnl. Fiorani è forte del rapporto intenso e diretto, molto diretto, con il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Ma è fragile perché, dopo tante acquisizioni realizzate ma non ancora digerite, la sua indebitatissima Popolare di Lodi o riesce a compiere il grande salto e diventa una banca di prima fila, oppure rischia miseramente di implodere: l’indicatore che misura la sua solidità patrimoniale (Tier 1) è sceso sotto il 2 per cento, non era mai successo a nessuna banca italiana.
La terza pista è la più cervellotica: a sostenere Ricucci sarebbe addirittura Giovanni Bazoli, il banchiere di Intesa, uno che con Ricucci non troverebbe parole comuni neppure per parlare del tempo, ma a cui sarebbe utile un assalto ai confini per riuscire a manovrare i rapporti di forza all’interno del patto; e a realizzare una sorta di guerra preventiva, rastrellando quote di Rcs per annullare così i rischi di vere scalate ostili. O di defezioni temute, come quella di Fiat, che in Rcs ha una delle quote più pesanti (oltre il 10 per cento), ma così tanti problemi a Torino da rendere prevedibile, prima o poi, un suo ritiro da Milano. Bazoli ha però smentito seccamente ogni suo coinvolgimento nella vicenda e il patto del calabrone ha dato ripetuti segnali di compattezza. Si è consolidato salendo, il 30 maggio, dal 57,4 al 58,08 per cento. E poi si è blindato, inventando il 5 giugno una clausoletta salvacalabrone secondo cui, in caso di opa, i soci s’impegnano a comprare loro le quote di chi voglia vendere.
Inseguendo indizi, si scopre che tra i finanziatori di Ricucci ci sono la Popolare dell’Emila Romagna di Guido Leoni, la Popolare di Vicenza e la genovese Carige guidata da Vito Bonsignore, tre istituti molto vicini al governatore Fazio e tutti e tre impegnati a difendere, con Fiorani, «l’italianità» di Bnl contro gli spagnoli. Ma anche in ambienti impensabili si scovano indizi che portano a Ricucci. In Banca Intermobiliare, per esempio, boutique finanziaria torinese controllata dalla famiglia Segre e da sempre vicina a Carlo De Benedetti. Oggi ha tra i suoi clienti più affezionati proprio Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, cui ha offerto servizi e finanziamenti, anche in relazione alla scalata Bnl.
Altri indizi portano ad Arnaldo Borghesi, amministratore delegato di Lazard Italia e membro di board cari a Bazoli come quello di Mittel e della Fondazione Giorgio Cini. È l’advisor preferito di Fiorani e, secondo voci diffuse durante la prima fase della scalata, era al lavoro anche per conto di Ricucci. L’editoria, del resto, a Borghesi piace, vista la sua vicinanza al quotidiano economico Finanza & Mercati diretto dal suo amico Osvaldo De Paolini, gran sostenitore degli affari di Fiorani e compagnia. Ma Ricucci ha poi dovuto smentire espressamente di aver affidato incarichi a Lazard «e specificamente a Borghesi».
Anche Francesco Micheli, finanziere-musicista ormai defilato, ha smentito di avere una parte in questo giallo con troppi indiziati e con piste che, anche se cadute, possono essere state vere per qualche momento o potranno diventar vere in futuro. Anche perché, seppure l’avesse iniziata da solo, oggi l’avventura Rcs non può più essere gestita in solitaria da Ricucci e comunque è destinata a sfuggirgli di mano. Il 30 maggio ha cominciato a parlare di opa: ma un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, che per legge farebbe sciogliere il patto del calabrone, obbligherebbe a mettere sul piatto almeno 3 miliardi e mezzo di euro e a spenderne effettivamente almeno la metà. Too much anche per la rude razza romana.

La pista rossa. Poi c’è la pista rossa. E qui gli indizi si moltiplicano. La banca più impegnata con Ricucci è la Deutsche Bank e il banchiere a lui più vicino (se si esclude Fiorani, naturalmente) è Vincenzo De Bustis, oggi numero uno di Deutsche Italia e vecchia conoscenza di Massimo D’Alema fin dai tempi eroici della Banca del Salento e di Banca 121. Sono firmati Deutsche e Société Générale giganteschi finanziamenti a Ricucci (per un totale di 1,8 miliardi di euro) su cui anche la Consob ha chiesto chiarimenti. De Bustis comunque sostiene di non saperne nulla: sono operazioni decise dal trading desk della sede di Londra. Ma il desk di Londra non fa investimenti senza relazione del desk di Milano. E poi la Deutsche è partner di Magiste anche nella gara in corso per la gestione dell’immenso patrimonio immobiliare Enasarco (valore: 3 miliardi di euro) in cui Ricucci si scontra con concorrenti del calibro di Generali e Pirelli Real Estate. La pista rossa, dunque, porta ad ambienti vicini a D’Alema. Chi lo conosce è pronto a giurare che a D’Alema piace l’attacco al cuore dello stato di cose presente sferrato dai nuovi capitani coraggiosi, dalla rude razza romana.
La pista rossa, del resto, è confermata anche da altri più sostanziosi indizi. Chi è il grande alleato di Fiorani (e dunque di Ricucci) in tutte le partite più rischiose che ha in corso? È Giovanni Consorte, il finanziere creativo di Unipol, l’uomo che ha trasformato il vecchio mondo delle cooperative rosse in una macchina da guerra da scatenare nelle operazioni finanziarie più spregiudicate: dalla madre di tutte le opa lanciata da Chicco Gnutti su Telecom, fino agli odierni arrembaggi a Bnl e Antonveneta. Consorte sembra aver stretto una sorta di patto informale con Fiorani e Gnutti, con cui fa cordata in molte operazioni benedette dal governatore Fazio. In casa, invece, Consorte si è assicurato il controllo della galassia Unipol grazie a un’architettura societaria così arzigogolata e autoreferenziale, piena di scatole cinesi e partecipazioni incrociate (l’ha raccontata Mario Gerevini sul Corriere nell’aprile 2004), da far invidia perfino alla «costruzione gotico-castrense» delle holding berlusconiane. Alla faccia della trasparenza che ci si aspetterebbe dal movimento cooperativo.
Non è un mistero che il nume tutelare politico di Consorte sia Massimo D’Alema, con tutta la rete degli amministratori locali Ds (necessari, per esempio, per stipulare grandi contratti pubblici con Unipol, o per concedere licenze edilizie a una Coop in grande espansione. Ma utili anche all’espansione dei nuovi palazzinari). Il mondo dalemiano è in grande fermento ed espansione, dopo le ultime vittorie elettorali del centrosinistra alle amministrative.
Tra i dalemiani spicca Pierluigi Bersani, ministro all’epoca della scalata Telecom da parte dei «capitani coraggiosi». Allora nell’operazione fu coinvolta anche la «banca rossa», il Monte dei Paschi di Siena, che pochi anni prima, nel 1996, era stata convinta da un suo consigliere d’amministrazione (Silvano Andriani, molto legato a D’Alema) ad acquistare una partecipazione in Mediaset decisiva per il successo del collocamento in Borsa della holding televisiva di Berlusconi. Oggi il Monte dei Paschi ha invece resistito alle pressioni politiche ed è rimasto neutrale rispetto alle scalate Bnl e Antonveneta. E nel mondo delle cooperative si è ormai formata una fronda anti-Consorte. Ma lui va avanti imperterrito. Tanto che anche Montezemolo, all’assemblea annuale di Confindustria, ha lanciato un’inattesa stoccata alla pista rossa. Dopo aver attaccato «la malintesa battaglia per l’italianità delle banche» e aver criticato, senza giri di parole, «l’emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi», Montezemolo ha alzato per un attimo gli occhi dai fogli che stava leggendo e, a braccio, ha aggiunto: «E nel Paese, soprattutto nella sinistra, abbiamo sentito troppi silenzi».
La frecciata era rivolta ai dalemiani. Reazione scandalizzata di Pierluigi Bersani: «Passaggio gratuito». E qualche giorno dopo, a proposito delle ipotizzate vicinanze Ricucci-D’Alema: «Mi sembrano palloni che si fanno girare per coprire la realtà dei fatti». Ma Franco Bassanini, ex ministro della Funzione pubblica, commenta con Diario: «L’uscita di Montezemolo forse era ingenerosa, visto che a sinistra qualcuno aveva parlato, eccome». Romano Prodi, Francesco Rutelli, Giuliano Amato e lo stesso Bassanini, esprimendosi apertamente per l’applicazione delle regole di mercato, avevano criticato le cordate di Fiorani e amici. «E del resto da destra, più che silenzi, sono arrivati sostegni forti ed espliciti agli scalatori», continua Bassanini, «vedi il comportamento di Luigi Grillo, presidente della Commissione lavori pubblici del Senato».
Detto questo, però, Bassanini non si scandalizza per la critica di Montezemolo. E ammette che i silenzi, a sinistra, ci sono stati. Anzi, altro che silenzi. D’Alema a Porta a porta ha parlato e si è schierato, quando si è lasciato sfuggire: «Io sono per il mercato, ma l’Italia non può avere solo filiali». Ora Bassanini replica: «A un’opa si deve rispondere con un’altra opa, non rastrellando azioni con operazioni poco trasparenti che alla fine danneggeranno i piccoli azionisti e faranno guadagnare i soliti noti». Su questi temi il Corriere ha da tempo chiesto un’intervista a Massimo D’Alema, ma per ora non ha ricevuto risposta.
A meno che... A meno che la pista rossa – si sussurra nei palazzi della politica – non sia un’invenzione centrista, un complotto anti-Ds messo in circolo da Della Valle e Montezemolo, con alle spalle Francesco Rutelli...

La pista B. Ma a proposito di opa, se davvero, alla fine, arrivasse a lanciare un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, allora Ricucci darebbe l’innesco a una rivoluzione. Il patto di sindacato sarebbe sciolto e ognuno correrebbe per sé. Funzionerà la clausoletta salvacalabrone? Certo che a quel punto i soldi necessari sarebbero davvero tanti e piste diverse, allora, potrebbero arrivare a sommarsi. E potrebbe magari palesarsi qualcuno che ha tanti soldi e tanta voglia di togliersi uno sfizio: fare finalmente i conti con quei rompiscatole del Corriere, sempre pronti a criticare il governo. Di personaggi con tanti soldi (magari per aver appena venduto un 17 per cento di Mediaset, con un ricavo di 2,2 miliardi di euro) e con conti politici in sospeso con il quotidiano di via Solferino ce n’è uno solo in Italia, e si chiama Silvio Berlusconi.
A voler guardare, qualche piccolo indizio che porta alla pista B. si è già materializzato. Nella lista stilata da Ricucci con i nomi per il consiglio d’amministrazione di Antonveneta nel caso fosse respinto lo straniero, compariva Ubaldo Livolsi: oggi è consulente di Ricucci, però è noto che Livolsi, dopo essere stato manager di Berlusconi, è diventato finanziere in proprio ma sempre in un’area contigua al suo ex capo, tanto da essere membro del consiglio d’amministrazione di Fininvest.
E in questa storia fa capolino anche il banchiere napoletano Federico Imbert, responsabile per l’Italia di Jp Morgan, in affari con Fiorani e Gnutti oltre che con l’Unipol di Giovanni Consorte, ma anche regista del collocamento del 17 per cento di Mediaset appena venduto da Berlusconi; il 25 maggio Imbert è stato ricevuto a Palazzo Chigi, secondo quanto annunciato da un comunicato della presidenza del Consiglio che non spiega i motivi della visita.
Soldi sporchi e avventurieri. E così stiamo assistendo all’ennesimo arrembaggio lanciato contro il fragile capitalismo italiano. In passato ci hanno provato in tanti, i Sindona, i Calvi, i Parretti... Anche allora circolavano le maldicenze su capitali misteriosi, i sussurri su affari sporchi. E in qualche caso è emerso che i rapporti con la criminalità organizzata c’erano davvero. I due più grandi banchieri privati italiani sono morti in circostanze misteriose, dopo crac clamorosi, lasciando scie di soldi che puzzavano di mafia. Raul Gardini, con la Calcestruzzi , era diventato tecnicamente socio di Cosa nostra. Salvatore Ligresti fu indagato (ma senza alcun risultato) «ai fini di un’eventuale proposta per l’applicazione di misure di prevenzione». E il braccio destro di Berlusconi Marcello Dell’Utri non è stato forse condannato a nove anni in primo grado per i suoi rapporti con la mafia? La storia italiana è fatta così. In queste storie del passato molti avevano abbozzato, altri si erano opposti, qualcuno ci aveva rimesso la vita.
«Sempre nei momenti di crisi entrano in campo capitali strani», comincia a ragionare un grande banchiere (anche lui: «Ma noi non ci siamo neanche visti»). Grandi speculazioni in tempo di declino dell’industria, grandi capitali che tornano a casa grazie allo scudo fiscale. Oggi, in più, c’è una novità radicale, anche rispetto alle brutte storie del passato: la crisi è strutturale e non c’è più nessuno che possa fare barriera. Il grande capitalismo italiano è ridotto a utilities e immobiliare. I vecchi equilibri sono saltati, non c’è più un Cuccia a fare il buttafuori e i nuovi arrivati spingono per entrare. I barbari premono ai confini, vogliono essere accettati nei vecchi salotti buoni. E con quali argomenti si può tenerli fuori? «In quei salotti stanno ormai signori che comandano senza avere i soldi. Da dove attingono la loro legittimazione le Grandi Famiglie ormai in declino, o i banchieri che comandano senza aver mai messo una lira di tasca propria? In nome di che cosa vantano una supremazia morale? Come possono dire a chi arriva con grandi capitali: voi non meritate di entrare?».
E allora che c’è di strano se qualcuno s’innamora dei barbari, della rude razza padana, poi della rude razza romana, animal spirits senza storia e senza cultura, ma vitali e solvibili? Ne subisce il fascino anche Massimo D’Alema, uno che a Milano si trova a disagio e per questo ci viene raramente, che nei suoi salotti si sente in imbarazzo, che non ama i «poteri forti», così privi di ogni deferenza verso la politica. Certo, una volta la sinistra lanciava i «patti tra i produttori» e alla rendita preferiva il profitto, l’industria alla finanza, non civettava con chi la produzione non sa che cosa sia ed è più interessato alla speculazione che all’innovazione e alla ricerca. Ma le cose, evidentemente, cambiano.
Anche l’ex palazzinaro Berlusconi – come Ricucci passato in fretta dall’ago al milione, e poi dall’immobiliare alla tv e alla politica – in fondo non ama Milano, la Milano delle grandi banche e dei grandi giornali che l’ha sempre guardato con sufficienza. Quando dice che l’80 per cento della stampa è comunista, non pensa certo all’Unità, ma al Corriere della sera, al Sole 24 ore. E in un certo senso ha ragione: il capitalismo nobile non ha mai amato gli outsider; li ha sempre disprezzati e messi alla porta, magari dopo aver concluso con loro qualche vantaggioso affare.
Oggi tutto questo potrebbe saltare. Una dozzina d’anni fa, la stagione chiamata Mani pulite è stata per un attimo, un attimo soltanto, anche egemonia culturale, possibilità di raddrizzare i conti dello Stato e i metodi degli affari. «Allora qualcuno si è illuso che fosse possibile introdurre anche in Italia il capitalismo di tipo anglosassone, un capitalismo delle regole», continua a ragionare il banchiere. «Oggi è chiaro che quel progetto è fallito». I barbari hanno i loro circuiti offshore e i loro rappresentanti in politica, hanno tanti soldi e metodi spregiudicati. Potrebbero sostituire del tutto un capitalismo nobile che, se mai c’è stato, ormai non c’è più.
Avrà ragione il banchiere pessimista?

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