«Gli attentati ai carabinieri erano cosa di 'ndrangheta»

scritto da Alessia Candito - Corriere della Calabria il . Pubblicato in Breakfast, Invisibili e 'ndrangheta stragista

REGGIO CALABRIA Quarant’anni, magro, quasi allampanato. Col capo coperto da un cappuccio, il pentito Consolato Villani si allontana dall’aula bunker di Reggio Calabria dove ha iniziato a deporre al processo...

REGGIO CALABRIA Quarant’anni, magro, quasi allampanato. Col capo coperto da un cappuccio, il pentito Consolato Villani si allontana dall’aula bunker di Reggio Calabria dove ha iniziato a deporre al processo “’Ndrangheta stragista”. Scortato da due uomini, si allontana in fretta, quasi inseguito dall’eco delle pesantissime dichiarazioni appena pronunciate e che potrebbero cambiare la storia no ad ora conosciuta dell’Italia. Perché Villani – in maniera chiara e netta – ha detto che non solo la maa siciliana, ma anche la ‘ndrangheta ha costruito e partecipato alla stagione degli attentati continentali che negli anni Novanta puntava a destabilizzare l’Italia.

KILLER RAGAZZINO Una prima fase di una strategia ben più articolata e complessa, che mirava – ha svelato l’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto, Giuseppe Lombardo – a imporre un governo “amico” in grado di sostituire i vecchi referenti politici. Villani, all’epoca, non ne sapeva nulla. Diciassettenne della periferia sud, orgogliosamente glio di ‘ndrangheta e ansioso di guadagnarne i galloni, lui si è limitato a dire sì alla proposta che avrebbe potuto fargli fare il salto di qualità nella gerarchia criminale. «Calabrò è venuto e mi ha detto: “Dobbiamo uccidere dei carabinieri. Sei d’accordo, vieni con me?”. E io ho risposto sì».

IL VERO MOVENTE Sono stati loro – è c’è anche una sentenza denitiva che lo afferma – a rmare i tre agguati contro le gazzelle dell’Arma di pattuglia a Reggio Calabria e provincia fra il dicembre del ’93 e il febbraio ’94, che sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e il ferimento di altri militari. «Ma il processo che è stato fatto per quegli agguati – afferma il pentito – racconta la verità sulla dinamica. Sul movente no». Lo stesso Villani non ne è stato a conoscenza n quando non gli è stato concesso un grado tanto elevato da essere messo a conoscenza di certi segreti. «La ‘ndrangheta – spiega – ora lo so, non è solo quella che si vede. Quella più potente è entrata nella massoneria». Rigidamente compartimentata, in modo da non diffondere dettagli sulla propria struttura neanche fra i suoi stessi afliati, anche per Villani – che per i clan si è macchiato giovanissimo di efferati omicidi – la ‘ndrangheta è stata per lungo tempo sconosciuta.

VERITA’ STRATIFICATE «Solo quando sono diventato santista mi è stato spiegato che è un’organizzazione che gioca con due mazzi di carte. A certi livelli ha contatti con personaggi delle istituzioni, politici, servizi segreti deviati. Questo perché la ‘ndrangheta è uno Stato nello Stato, si comporta come uno Stato». Un po’ – dice il pentito – lo aveva intuito anche prima che gli venisse spiegato in dettaglio, «perché il mio clan, i Lo Giudice, avevano contatti con questi personaggi, magistrati, forze dell’ordine». Poi è toccato a Nino Lo Giudice, di cui Villani era cugino e braccio destro, spiegargli qualcosa in più. «Mi disse che ci sono soggetti, che si sono uniti a ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra, che fanno parte dei servizi segreti deviati. Fanno parte delle istituzioni ma lavorano per le mae».

L’OMBRA DEL MOSTRO «Mi raccontò di due persone – continua Villani – Lui, mi disse, è uno straccione, un mercenario, brutto, pericoloso. Stava insieme ad una donna, bionda in quel periodo. Pericolosa anche lei». Un riferimento sembra a quel Faccia di mostro che diversi collaboratori, incluso Nino Lo Giudice, hanno identicato in Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della Mobile di Palermo morto nell’agosto scorso sulla spiaggia di Montepaone Lido, e alla misteriosa Antonella con cui faceva coppia. Personaggi – è emerso dall’inchiesta – che anche Villani avrebbe incontrato, dunque, forse per questo potrebbe essere stato informato da Lo Giudice. Ma senza scendere troppo in particolare. «Avrebbe potuto farlo quando ero santista, ma ha aspettato che mi facessero evangelista, perché io alcune cose non le potevo capire, non ero uno che gioca con due mazzi», dice Villani.

GALLONI Una carriera quasi folgorante la sua, rapidissima, con tappe bruciate una dopo l’altra anche nel giro di mesi. «L’omicidio dei carabinieri era una cosa che mi faceva avanzare in fretta». Un controsenso, per certi versi. «Se un qualsiasi ‘ndranghetista si fosse azzardato a toccare qualcuno delle forze dell’ordine sarebbe stato eliminato, sicamente eliminato» ricorda. Eppure per lui, quegli attentati erano stati quasi un modo per scalare più rapidamente la gerarchia. «Ho provato a parlarne più volte con Nino Lo Giudice, ma lui mi stoppava sempre. Io invece sono sempre stato convinto che lui sapesse tutto. Mi diceva di non parlarne con nessuno, perché potevano ammazzarci». Solo con il tempo, racconta il pentito, ha scoperto cosa si celasse dietro quegli agguati. Qualcosa aveva capito durante il processo d’appello, quando il suo legale, l’avvocato Lorenzo Gatto, ha chiamato a testimoniare il pentito Gaspare Spatuzza, che ha riferito la conversazione con Giuseppe Graviano durante la quale lo avrebbe invitato ad affrettarsi con l’attentato (poi fallito) all’Olimpico, perché “i calabresi già si erano mossi”.

IL PATTO CON COSA NOSTRA Ma solo anni dopo, da “evangelista” è riuscito a ricostruire un quadro più o meno organico. «Ho saputo che era stata fatta una riunione nella Piana di Gioia Tauro prima di questi fatti. C’erano tutti i rappresentanti della ‘ndrangheta, i Piromalli, i De Stefano, ma anche gente di fuori, di Milano e capi siciliani. Ma questa non era una cosa strana. La spinta per la pace dopo la seconda guerra di ‘ndrangheta l’ha data Totò Riina che venne a Reggio Calabria per far nire la guerra, ma anche per prendere accordi. Questo perché aveva la necessità di reclutare la ‘ndrangheta per le stragi. Ci fu un patto fra i clan reggini e Cosa nostra». E nell’ambito di questo patto – dice senza esitazione – il primo favore fu l’omicidio del giudice Scopelliti. I De Stefano, I Tegano e i loro alleati, fra cui i Garonfalo, hanno da fare un favore a Riina». Dettagli di cui solo nel tempo Villani viene messo a conoscenza, così come solo a molti anni dagli efferati attentati capisce perché – diciassettenne – sia stato mandato al macello.

RECLUTAMENTO Perfettamente controllabile, troppo entusiasta per fare domande o per tirarsi indietro, giovane ma già in grado di mostrarsi risoluto e spietato, Villani è stato reclutato senza difcoltà alcuna da Calabrò per una “missione” di cui per anni non ha saputo nulla. «Era lui che sapeva i posti, che organizzava, che sapeva dove procurare le armi e diceva cosa fare. Io non gli facevo domande, mi limitavo a eseguire», sostiene. «Sempre lui ha detto che dovevamo sparare sempre con la stessa arma. E questo già all’epoca mi è sembrato strano. Era una rma».

L’OMBRA DI FILIPPONE Tuttavia, già all’epoca Villani qualche domanda ha iniziato a farsela. Soprattutto dopo che il primo agguato fallisce e Calabrò improvvisamente decide di presentargli lo zio, Rocco Filippone. Un boss di livello. «Era uno ‘ndranghetista invisibile, uno di quelli che difcilmente vengono presi perché hanno contatti solo con i massimi vertici dei clan»,

ricorda il pentito. Dopo quella visita, Calabrò inizia ad essere più risoluto. «Dopo il primo attentato – racconta il pentito – era ancora più determinato, come se non volesse far brutta gura con qualcuno. Mi diceva che dovevamo fare di più. Quando abbiamo ucciso i brigadieri, il piano è riuscito solo a metà. Dopo aver sparato dovevamo buttarli giù per una scarpata, solo che non ci siamo riusciti». Alla morte, bisognava aggiungere lo scempio dei corpi. «Mi ha detto una cosa che mi ha colpito molto. Mi disse che dovevamo fare come quelli della Uno bianca». Una strategia del terrore, destinata a fare rumore. Ma di cui nessuno si è mai lamentato.

L’AUTORIZZAZIONE Sebbene una delle regole cardine della pace seguita alla seconda guerra di ‘ndrangheta fosse proprio il necessario avallo di tutto il direttorio, se non della Provincia, prima di procedere all’omicidio di uomini delle istituzioni, ha mai rimproverato a Villani e Calabrò per i tre agguati. «Anzi mi è sembrato che personaggi come Vincenzo Ficara mi guardassero con maggiore rispetto». Anche per questo, afferma il pentito in aula, «ho sempre pensato che qualcuno abbia dato l’autorizzazione». E quel qualcuno poteva essere solo Rocco Filippone.

QUESTIONE DI ELEMENTI «Io non ho elementi certi per dirlo – dice Villani – ma ci sono varie cose che mi hanno sempre portato a pensare questo. Filippone era un grande ‘ndranghetista, un invisibile, aveva contatti solo con i massimi vertici. I Condello, i De Stefano e i Tegano a Reggio, i Piromalli e i Pesce nella Piana, i Nirta, Strangio, Papalia, Sergi sulla Jonica. È da lui che siamo andati dopo il primo attentato e anche il pentimento di Calabrò non ha “rovinato” lo zio. Ed è stato suo glio a consegnarci le armi». Il nome di Filippone – emerge dalla sua deposizione – non è mai mancato dalla copiata che ha accompagnato il passaggio a un grado superiore del pentito. E sempre dall’anziano boss – ricorda Villani – si è recato suo padre quando la stagione degli attentati è iniziata, per chiedere che il glio fosse tenuto da parte. Per questo oggi afferma con sicurezza che «gli attentati ai carabinieri erano cosa di ‘ndrangheta»

LOTTANDO CONTRO LA PAURA «Prima – afferma Villani – non ho detto tutta la verità perché avevo paura per i miei gli e per i miei familiari. Poi però, ho capito che non mi potevo tenere tutto dentro». Ma almeno in parte, adesso, quella paura sembra averla vinta.

 

 

Tags: 'ndrangheta, cosa nostra, reggio calabria, massoneria, processo, inchiesta, servizi, destra eversiva, stragista

Stampa