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Camorra Security

Camorra Security

di Fabrizio Gatti

Dalla Regione alle banche. Un terzo della sicurezza affidata a un clan. Dal passato ingombrante e già processato per mafia

Ne hanno fatta di strada i fratelli Buglione di Saviano. Da piccoli raccomandati di provincia a massimi esperti di sicurezza, micro e macrocriminalità. Con la loro rete di agenzie di polizia, proteggono un terzo di Napoli. Sono tanto stimati che, grazie a una gara d'appalto del 2005, i loro vigilantes sono diventati la guardia privata della Regione Campania. Così ha deliberato una commissione della giunta di Antonio Bassolino quando ha dovuto stabilire chi doveva presidiare gli uffici e le sedi del Consiglio regionale. L'annuncio sul 'Bollettino ufficiale' era tanto stringato che solo gli addetti ai lavori se ne sono accorti. Cinque righe per un contratto da 4 milioni e mezzo di euro.

Difendere la Regione a Napoli è come difendere il governatore e i suoi amministratori dalla camorra. Un biglietto da visita di cui vantarsi. I fratelli Buglione conoscono di persona cosa sono la mafia e l'antimafia. Arrestati e processati con l'accusa di associazione mafiosa, quattro anni fa sono stati assolti. 'Per non aver commesso il fatto', ha stabilito il Tribunale di Nola nella sentenza poi confermata in appello. Ma Francesco Soviero, il giudice estensore, nella motivazione usa parole con cui soltanto a Napoli si può fare carriera: "Nel corso del lungo e articolato processo è emerso con certezza che le condotte tenute dagli odierni imputati sono sicuramente censurabili sotto il profilo etico. Invero", aggiunge il Tribunale, "le irregolarità amministrative emerse nel corso dell'istruttoria dibattimentale, i rapporti con noti esponenti della criminalità organizzata, la gestione privata e clientelare della cosa pubblica realizzata per il tramite di un diffuso ricorso alla raccomandazione e ai rapporti privilegiati con esponenti politici e con uomini delle istituzioni, dimostrano che ci troviamo sicuramente di fronte a uomini disonesti e privi di scrupoli".


Forse il governatore Bassolino non è mai stato informato. Ma è anche vero che la memoria partenopea è cortissima. Praticamente nulla. Un esempio? Giovedì 2 novembre scende a Napoli il presidente del Consiglio, Romano Prodi, e rassicura la città dopo gli ultimi omicidi. Venerdì 3 novembre arriva il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, che raschia l'impossibile dal bilancio della polizia e, seduto accanto a Bassolino, annuncia il Patto per la legalità. Lunedì 6 novembre il Consiglio comunale dovrebbe decidere ulteriori misure. Un problema tra i tanti da discutere? La scuola. A Milano l'88 per cento delle scuole primarie lavora a tempo pieno. A Napoli e in provincia soltanto l'1 per cento: in tutte le altre, i bambini restano a spasso. Ma lunedì sera allo stadio c'è Napoli-Juve. Non si presentano 19 consiglieri della maggioranza e, tranne due, tutta l'opposizione di centrodestra. Manca il numero legale, la seduta non comincia nemmeno. Ha un bell'impegno il sindaco Rosa Russo Iervolino nel sostenere che la città non è come appare.

Lo Stato si mobilita. Napoli se ne fotte. Le forze dell'ordine chiudono i commissariati in città. E gli istituti di vigilanza cresciuti intorno ad Antonio Buglione, 50 anni, e al fratello Carlo, 42, prendono il loro posto. Oltre alla Regione, vigilano ormai sulle Asl, la Ferrovia Circumvesuviana, lo smaltimento dei rifiuti, le banche, i caveau, i furgoni blindati. L'80 per cento del movimento di soldi in Campania dipende da loro. E un terzo del mercato napoletano della sicurezza è sempre loro: pattuglie stradali, industrie, negozi, portinerie. Basta dividere 200 milioni per tre, il giro d'affari complessivo, e si capisce quanto è forte la holding. Già è arrivato il momento delle grandi scalate. La prima è stata un successo. L'8 settembre di quest'anno un loro partner, Antonio De Felice, 40 anni, di Brescia, è diventato presidente di Dual Service spa. La società bresciana gestisce la sorveglianza, la scorta ai blindati e la custodia di tonnellate di soldi per le grandi banche del Nord. Una fra tutte, Banca Intesa. Un altro ramo d'attività di De Felice, procuratore nella Base srl di Vicenza, altro colosso della sicurezza, porta alla protezione del Monte dei Paschi di Siena. Il prossimo malloppo da conquistare sarà il colossale appalto per il contante delle Poste. E quel giorno, i misteriosi fratelli di Saviano potranno dire di avere messo le mani sul denaro di metà degli italiani o forse più.

Il successo iniziale delle guardie private della Regione è legato a un nome che ha lasciato tanti eredi politici a Napoli: Carmine Mensorio, senatore della Dc e poi del Ccd, uscito dieci anni fa dall'inchiesta sugli intrecci tra camorra, borghesia e alti funzionari dello Stato buttandosi dal traghetto che lo stava riportando ad Ancona dalla latitanza in Grecia. Nel frattempo ad Antonio e Carlo Buglione si è unito il più giovane della famiglia, Carmine, che oggi ha 39 anni. L'ultimo loro colpo poche settimane fa ha messo fuori gioco tutta la concorrenza: l'appalto per il denaro della Banca di Roma in Campania. Secondo fonti dell'istituto, è stato conquistato grazie a un super ribasso, 14,50 euro l'ora contro i 19,99 stabiliti come minimo dalla Prefettura.

Di quei primi anni restano tanti ricordi. In parte scritti su carta intestata della Direzione distrettuale antimafia. Come la foto della cena, il 19 gennaio 1996, in un ristorante di Nola, tra Mensorio, amministratori locali, consiglieri regionali e presunti camorristi per preparare la campagna elettorale: "Sotto la vigilanza armata di due istituti di vigilanza", spiegano in quei giorni i magistrati all'Ansa, "La vigilante 2 e La vigilante 3 dei fratelli Buglione". Oppure le agghiaccianti testimonianze dei boss pentiti Pasquale Galasso e Carmine Alfieri. "Con il titolare di quell'istituto, anzi preciso con uno dei titolari di quell'istituto", racconta Galasso, "Alfieri era in contatto assai stretto per il tramite di Geppino Autorino. Tali rapporti di Alfieri con quell'istituto, sono dimostrati anche dal fatto che il primo si rivolgeva al secondo per ottenere assunzioni di persone fidate. È il caso di un ex carabiniere, o comunque ex militare, di circa 35-40 anni, abitante in una casa di campagna al centro della rete di rifugi di Alfieri in Piazzolla di Nola". E Carmine Alfieri, parlando di Antonio Buglione: "L'incontro che ebbi con lui avvenne durante la mia latitanza, presso la vecchia abitazione di Autorino". Ci sono anche i momenti drammatici. Quando nel 1993 Antonio Buglione, sulla Mercedes del senatore Mensorio, scampa a un agguato a colpi di pistola e resta ferito alla testa. Ma sono tempi passati. La competizione oggi si gioca con le alleanze e i prezzi al ribasso. Per conquistare la protezione della Regione, la famiglia Buglione ha messo in campo l'International security service. E, per gareggiare nell'appalto, si è associata con un altro colosso locale del settore: La vigilante, società nella quale Antonio aveva cominciato come guardia giurata. Anche questo istituto ha attraversato un brutto momento una decina di anni fa. Federico D'Emilio, 64 anni, figlio del fondatore e padre dell'amministratore, era stato accusato di associazione mafiosa. Ma nel 1998 è stato pienamente assolto. Unico punto di contatto con la camorra: essere compare d'anello, il testimone di nozze, del superlatitante Eduardo Contini, 51 anni, potentissimo boss di Vasto, Arenaccia e Poggioreale. Un fatto, scrivono i giudici nell'assoluzione, che comunque genera "un profondo sentimento di inquietudine". Sono passati otto anni. Tanto è bastato per dimenticare anche quell'inquietudine.

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Napoli - Giustizia chiusa per paralisi

Giustizia chiusa per paralisi

di Marco Del Gaudio, sostituto procuratore dell'Antimafia

Mancano mezzi, uomini, strutture. Se anche il giro di vite annunciato avesse effetto, la Procura non potrebbe fronteggiare arresti e processi. Parola di pm in trincea

Lo stato di emergenza a Napoli pare abbia prodotto una dichiarazione di intenti sul rafforzamento di alcune strutture di polizia giudiziaria. Forse, per moralizzare l'intera faccenda, val la pena di sottolineare che, se gli interventi promessi saranno realizzati, non si tratterà comunque della realizzazione di un impegno aggiuntivo e speciale per Napoli, ma solo di un tentativo di (parziale) adeguamento alla media nazionale. Con i ritocchi promessi, insomma, si avvicinerà, per esempio, la percentuale di carabinieri per abitante di Napoli a quella delle altre città, senza tuttavia raggiungerla. Ma tutti sanno che è un po' difficile essere scippati a Teramo, Forlì o Trento e che, in quelle zone, non vi sono molti morti ammazzati per strada. E prepariamoci al peggio. Eh sì, al peggio.

Ammettiamo, per un momento, che le forze di polizia, numericamente ricondotte a una percentuale più vicina agli standard nazionali, produrranno più attività d'indagine e che esse siano realizzate con modalità tali da renderle 'processualizzabili'. Fingiamo per un istante, insomma, che i nuovi mezzi funzioneranno. Sarebbe un disastro.

Se le nuove risorse funzioneranno, va considerato che la Procura di Napoli è allo stremo, quanto a risorse finanziarie e umane. Non parlo dei magistrati, almeno non in prima battuta. Le risorse economiche per il funzionamento degli Uffici sono già ultimate da tempo, e non è affatto una nuova notizia. Manca tutto: automobili, benzina, commessi che portino i fascicoli, carta, toner, cassette per registrare gli interrogatori dei collaboratori di giustizia, computer portatili per i magistrati: tutto.

Le auto blindate per i magistrati dell'Antimafia hanno in media 250 mila chilometri di percorrenza e - la maggior parte - risalgono al 1992. Ragione per cui, com'è facile comprendere, "fanno il 5 al litro". Per fortuna la benzina manca, altrimenti sai che spesa.


Se debbo interrogare qualcuno in carcere, bisogna augurarsi che funzioni il pc della struttura che mi ospita, altrimenti si verbalizza a mano. Ma il punto è che (lo dice la legge) non si può interrogare un detenuto senza registrare e, purtroppo, non ci sono le cassette.

Ma pochi parlano del personale amministrativo.

La carenza di organico, in Procura, è vicina al 30 per cento e si tratta di un personale con un elevatissimo tasso di mobilità e di assenza dall'ufficio: ogni giorno manca un 40 per cento del personale (o forse più). Chi ha fatto il pm sa che la mancanza del personale di cancelleria equivale alla paralisi. Le indagini camminano con le gambe dei cancellieri e dei commessi, sicché carabinieri e polizia possono arrestare chi vogliono, ma se manca una fotocopia (e chi legge i giornali sa che è accaduto), bisogna scarcerare anche il più pericoloso dei criminali.

Ma, se anche la Procura fosse rianimata da qualche insospettabile bombola di ossigeno, credo che la situazione non migliorerebbe affatto. Solo a titolo esemplificativo, mi risulta che il numero delle procedure del Tribunale per Riesame di Napoli è di molte volte maggiore di quello di Roma o Milano.

Ma forse, in tema di 'mezzi' per affrontare la criminalità, dovremmo pensare di più all'unico strumento davvero democratico ed efficace: il processo e la condanna. Forse non tutti sanno che la legge prevede che il contrasto di polizia, nel caso più fortunato, ossia che vi siano elementi per l'arresto in flagranza, dura al massimo 48 ore. Dopo di che, se non inizia un procedimento giudiziario con tutte le garanzie, tutti devono essere liberati. Insomma l'iniziativa della Polizia, da sola (e sottolineo da sola), ' vale 48 ore'. Dico io per fortuna. Ma, allora, quando si mette al lavoro la polizia, bisogna cercare di prevedere che fine farà quel lavoro.

Anche qui, qualche dato. In genere, l'ipotesi accusatoria nei confronti di un soggetto arrestato, prima di ottenere una stabilità, subisce almeno otto gradi di giudizio, se si eccettuano quelli di rinvio per i possibili annullamenti della Cassazione. In sintesi, ipotizzando che vengano impegnati non più di cinque rappresentanti del pubblico ministero, allora saranno necessari in tutto all'incirca 30 magistrati, che debbono lavorare a regime. Ovviamente sto parlando di un solo arresto, fatto da uno di quei nuovi mille poliziotti.

Ognuna di queste fasi (avete capito bene, ognuna) necessità di notifiche di molti atti al difensore ed all'indagato. In alcune fasi, bisogna procedere a più notifiche di avvisi quasi identici. Queste notifiche, ormai, non le può più fare la polizia, ma sono affidate unicamente agli ufficiali giudiziari. Verrebbe da dire subito: giusto! I poliziotti debbono arrestare i criminali non fare i postini. Ma tutti sanno che, almeno a Napoli, i criminali o i loro parenti picchiano anche i carabinieri e i poliziotti, perfino quando stanno procedendo agli arresti. I criminali, inoltre, sanno benissimo che una mancata notifica equivale a far saltare un processo e, talvolta, a ottenere facilmente la libertà. Pensate che offrano il caffè agli ufficiali giudiziari? Pensate che, i meno violenti tra loro, si facciano trovare a casa? Pensate che gli ufficiali giudiziari abbiano automobili, strutture o le giuste informazioni per trovare queste persone? Se avete risposto bene ad almeno due di queste domande, saprete perché a Napoli saltano molti più processi che altrove.

Rispetto a questo stato di cose l'incremento anche di un 2 per cento delle notizie di reato appare una mazzata dalla quale non ci si risolleverebbe. Basti solo pensare che, attualmente, per registrare le notizie di reato che arrivano a Napoli, si impiegano sostanzialmente quattro magistrati al giorno, tutti i giorni esclusa la domenica e che, l'anno scorso, la Procura di Napoli ha dovuto trattare e processualizzare dinanzi ad altrettanti giudici oltre 5 mila arresti in flagranza. Ai quali si devono aggiungere, ovviamente, quelli arrestati con ordinanza di custodia cautelare e quelli a piede libero .

L'associazione nazionale magistrati ha, dunque, un compito ingrato e poco simpatico. Inaugurare una nuova campagna di stampa: 'Un piano per Napoli? No, grazie'.

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Inferno napoletano

Inferno napoletano

di Roberto Saviano

Violenza nelle strade. Ragazzini che sognano di diventare killer. Boss che si fanno imprenditori. Coca a ogni angolo. Rifiuti ovunque. E la politica non ha risposte per una città senza più speranza

Era uno degli ultimi a essere sfuggito. Ne restavano soltanto due. Il penultimo era lui, Modestino Bosco, 35 anni, e l'hanno massacrato in un garage sabato 2 settembre. Il clan Licciardi l'aveva condannato a morte molto tempo fa. L'aveva inserito nella famosa 'lista della Resurrezione'. Una lista di nomi scritta e affissa fuori la chiesa della Resurrezione a Secondigliano. I nomi erano dei presunti responsabili - secondo il clan - della morte del nipote di Gennaro Licciardi 'a'scigna', Vincenzo Esposito ucciso nel 1997 a 21 anni al rione Monterosa. Esposito lo chiamavano 'il principino' per il suo essere nipote dei sovrani di Secondigliano. Era andato in moto a chiedere spiegazione di una violenza subìta da alcuni suoi amici. Indossava il casco e venne scambiato per un killer. Quando se ne accorsero gli esecutori avrebbero voluto uccidersi con le loro mani, siccome intuirono che sarebbe stata cosa migliore che aspettare la ferocia dei Licciardi. E i Licciardi fecero partire una mattanza che in pochi giorni uccise 14 persone, a vario titolo coinvolte nell'omicidio del loro giovane erede. Fu così che nacque l'idea di affiggere una lista fuori la chiesa, una lista che il parroco subito strappò, ma non così in fretta da non far leggere i nomi a tutti. Un modo per marchiare a fuoco i responsabili, per velocizzare l'eliminazione senza dover iniziare la strategia delle mattanze trasversali, un invito a consegnarsi per salvare i familiari, un invito ai familiari a consegnare il loro 'morto viven -te'. E dopo lunghi anni, la memoria dei clan è ferrea e infallibile, Modestino Bosco ha pagato la sua condanna. Non è stato uno degli ultimi a morire. Infatti pochi giorni dopo è stato ucciso Bruno Mancini, pregiudicato vicino al clan Di Lauro, crivellato di colpi di 9x21, la pistola il cui calcio da queste parti si abbina con il colore della cintura. Poche ore dopo, un altro agguato: Alfonso Pezzella, 56 anni, è stato assassinato nella sezione dei Comunisti italiani di Casandrino, intitolata ad Antonio Gramsci. Pezzella era un falegname, le indagini mostrano che aveva deciso di interrompere il pagamento dei debiti d'usura. E poi l'ennesimo innocente ammazzato per una rapina: un edicolante Salvatore Buglione 51 anni, la prima sera che non si era fatto assistere dai suoi parenti durante la chiusura del chiosco è stato assalito. Lo volevano rapinare dell'incasso del giorno, l'hanno accoltellato al petto, vicino al cuore. Tre vittime soltanto in un giorno.


Eppure fino a martedì l'estate era stata fatta di scippi, condotti con violenza e tecnica creativa. Il filo di banca è la più sofisticata: si aggancia la persona allo sportello, quella che ha prelevato più soldi, si lancia l'allarme con il telefonino ai complici e la vittima viene pedinata fino a una strada tranquilla. A quel punto non servono neanche le armi: quasi sempre basta la minaccia per farsi consegnare i soldi. C'è poi il metodo del panino, le forche caudine urbane: si sfrutta la strettoia per scippare. Infine il colpo al Rolex, aggiornato nell'era di Internet: si studiano su Ebay le quotazioni degli orologi, memorizzando i più richiesti. Poi si 'squadra la situazione', cercando al polso della vittima il pezzo più pregiato. L'agguato scatta nella zona degli alberghi sul lungomare e per il Rolex si è pronti a tutto, anche a sparare. E così in un territorio che va da via Chiaia a piazza Garibaldi passando per via Caracciolo e i Decumani solo nei mesi di luglio e agosto sono stati denunciati 756 scippi e rapine: più di 12 al giorno.

Quello che sembra essere una costante di Napoli e delle letture che si fanno del territorio partenopeo è che il male è tutto il male possibile ed il bene è tutto il bene possibile. È complesso riuscire a isolare i vettori delle contraddizioni, riuscire a comprendere sino in fondo le dinamiche, capirne i perimetri, valutare le tragedie. Napoli sembra sprofondare ed ogni qual volta si è certi di aver raggiunto una sorta di abisso che non può celare sotto che altro abisso, si continua invece a scendere. Come se il limite non si raggiungesse mai. Le estati sono momenti di impennata: turisti, vacanzieri, la vita per strada, divengono portatori di oggetti e danari troppo succulenti per non essere considerati come capitale mobile, danaro frusciante che ti passa sotto il naso, come se avessero sotto le t-shirt e i top il colore verde del dollaro o dei 500 euro. Poi, dopo, si alternano mazzi di fiori inviati ai turisti pestati, inviti a rimanere nelle splendide terre della Magna Grecia e poi lettere ai giornali di chi abbandona Napoli perché esausto. E di chi resiste. E turisti che dicono di non aver mai avuto tanta paura come in questa città, come l'americano Thomas Matthew Godfrey che ha reagito a uno scippo in vico dei Maiorani qualche settimana fa e si è trovato addosso una carica di persone, corse a sostenere i criminali che lui era riuscito a bloccare.

Il percorso non sembra essere mutato dal 1996 quando il leggendario 'Pippotto', ragazzino di Secondigliano chiamato da tutti ''o terrore', appena quattordicenne riusciva a fare decine di rapine in un'ora e cercava di migliorare le sue capacità tirando coca. La coca che a Napoli ha raggiunto prezzi bassissimi, arriva anche a 10 euro a dose al Rione dei Fiori nell'area nord della città, è il carburante migliore per mantenere un elevato grado di efficienza al furto, in grado di non farti sentire la stanchezza, di fare su e giù per le strade e di non perdere l'attenzione per 'squadrarsi la situazione'. Qualche giorno fa un ragazzo di vent'anni in un'ora ha scippato quattro donne, tra cui una disabile. La sua giornata è iniziata alle otto di mattina sul lungomare poi Porta Capuana e il Centro direzionale. Lo scippatore - incensurato, padre operaio in una delle tante fabbriche di scarpe nei sottoscala di via Foria - lavorava come garzone di barbiere: arrestarlo è stato facile, perché per i suoi colpi usava l'automobile. Il segno di un'inventiva criminale che studia sempre nuove tecniche: le armi, per esempio, non si usano più. Per rapinare bastano schiaffi e pugni. I Rolex sono il pezzo più ghiotto in assoluto: non ci sono statistiche, ma a leggere solo le denunce fatte in Questura a Napoli ne sono stati rubati negli ultimi anni più di 50 mila, e la cifra dicono gli inquirenti è sicuramente per difetto. Non solo a Napoli, ma furti di Rolex gestiti da napoletani sono stati segnalati nel 2006 a Genova, Riccione, Roma. Ovunque il mercato dei Rolex è gestito da qui siccome - come ha dimostrato l'inchiesta del 2006 al Monte di Pietà - i clan napoletani, soprattutto quelli del centro storico riescono a immettere i Rolex nuovamente nel circuito nazionale e internazionale di vendita. Un orologio rubato dopo una settimana ha una garanzia nuova, un codice nuovo ed è già su un polso nuovo.

Alla camorra non interessa mettere a stipendio l'intera massa che preme per entrare nel mercato imprenditorial-criminale. Quello che era stato il progetto degli anni '80 della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo di creare una sorta di 'Fiat della malavita', farebbe ridere i boss dei clan di oggi. Nonostante ciò, la camorra continua ad essere per numero di affiliati l'organizzazione criminale più corposa d'Europa, a leggere i dati forniti dalla Procura antimafia di Napoli. Per ogni affiliato siciliano ce ne sono cinque campani, per ogni 'sacrista' pugliese quattro, per ogni 'ndranghetista addirittura otto. In Campania c'è anche il territorio con il più alto tasso di camorristi rispetto alla densità abitativa, tra Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d'Aversa, comuni del Casertano con meno di 100 mila abitanti, ci sono 1.200 condannati per 416 bis e un numero esponenziale di indagati per concorso esterno in associazione mafiosa. I rapper cantano 'Napoli è cocente di 416 bis' e il reato di associazione mafiosa diventa un inno, un'aspirazione. Perché l'aumento della pressione microcriminale sulla città trova ragione innanzitutto dal calo dei criminali 'a libro paga' e dalla progressiva ristrutturazione dei cartelli. Che è come se avessero svincolato gli uomini, autorizzandoli di conseguenza a scippare e razziare in ogni zona di Napoli. Spingendoli a osare di più, perché entrare a pieno titolo in un clan è spesso complicatissimo. E tentare di crearne uno è una prova cui molti vogliono sottoporsi.

La flessibilità della camorra è la risposta alla necessità delle imprese di far muovere capitale, di fondare e disfare società, di far circolare danaro e di investire con agilità in immobili senza l'eccessivo peso della scelta territoriale o della mediazione politica. Ora i clan non hanno necessità di costituirsi in macrocorpi, un gruppo di persone quindi può decidere di unirsi in banda, rapinare, sfondare vetrine con gli arieti, rubare beni e rimetterli nel mercato, senza subire come in passato o il massacro o l'inglobamento nel clan. Le bande che scorrazzano per Napoli non sono composte esclusivamente da individui che fanno crimine per aumentare il volume della propria tasca, per arrivare a comprare l'auto di lusso o riuscire a vivere comodamente. Gli individui che scelgono di far rapine, aggressioni, furti, sono spesso coscienti che aumentando le proprie azioni, riunendosi, possono migliorare la propria capacità economica, divenendo interlocutori dei clan o loro indotti. La rapina, l'aggressione, il furto, sono i primi scalini che servono per diventare imprenditore. Iniziare a mettere su un capitale è un percorso di crescita, non un gesto disperato. A Napoli la ferocia è un valore aggiunto. Già qualcuno, molti anni fa, disse che in una città dove il valore della vita è pari a zero chiunque una mattina può svegliarsi e decidere di mettere su un gruppo che se gli va bene potrà diventare clan, se gli va male finirà nella disperazione delle rapine. Il tessuto della città si slabbra, sino a spaccarsi tra due diverse tendenze gli individui, le bande, che come parassiti si nutrono di questa violenza allargata dove ogni essere vivente è territorio da saccheggiare, e di clan che invece come avanguardie velocissime spingono il proprio business verso il massimo grado di sviluppo e commercio, tra queste due cinetiche la città si sta dilaniando.



La mattanza di Scampia ha generato un'attenzione che mancava dalle dinamiche di camorra da più di dieci anni. Si torna a parlare del vecchio modello delle due Napoli. Una marcia, putrida e criminale; l'altra dotta, saggia, colta e visibilmente oscurata dalla mala-Napoli. Le due Napoli tornano visibili. La Napoli borghese, che non disdegna di parlare il dialetto con sonorità antiche, la Napoli che si considera capitale di bellezza e capacità di vita, e dall'altra la Napoli dei neomelodici, di Tommy Riccio e delle radio che trasmettono i messaggi di auguri ai carcerati di Poggioreale. La Napoli alta vede il crimine, la feccia del narcotraffico, l'arroganza del pizzo come degenerazioni della Napoli bassa, come un sacco velenoso che essa è costretta ingiustamente a trascinare.

Ma questi poli opposti, queste radicalità hanno perimetri ambigui. In realtà ben più di un nodo lega quest'apparente distanza. Il fulcro dell'economia della camorra è la sua forza imprenditoriale, una forza che si innesta anche nell'economia del nord Italia, irradiandosi in Asia, America e tutta Europa. Si combatte nelle strade di periferia e i soldati, come in ogni guerra, sono i disperati che ammazzano con un indennizzo di 2.500 euro a omicidio, che prendono salari di 700 euro mensili e che sperano di arrivare agli stipendi dei 'dirigenti militari', quelli che possono intascarsi anche 20 mila euro a settimana. Le economie in palio sono astronomiche: quella dei Di Lauro supera i 500 mila euro al giorno e, secondo quanto dichiarato nel settembre scorso nella commissione parlamentare Antimafia, il clan dei Casalesi gestirebbe un patrimonio di 30 miliardi, inclusi i beni posti sotto sequestro ma ancora nelle loro disponibilità. E le loro economie possiedono i perimetri dei continenti, si muovono con i money transfer in Canada, Australia, Gran Bretagna, Svizzera, investendo in aziende, negozi, ristoranti, alberghi. I dirigenti di queste economie hanno i profili dei finanzieri, degli imprenditori internazionali, non hanno la foggia dei criminali di periferia, risiedono nelle città europee, a Tenerife, Monaco, Varsavia, viaggiano da Pechino a Bogotà e investono negli Usa, Germania, Francia. Sono uomini di mondo, che con i soldi di camorra conquistano il mondo.

Sanno di correre dei rischi. Ma sanno anche fiutare le scorciatoie. L'indulto è venuto in soccorso delle disperate condizioni di vita a Poggioreale: un carcere d'inferno, il più sovraffollato d'Europa, dove d'estate nelle celle si arriva a 45 gradi e vivono in 2.300 nello spazio che dovrebbe contenere al massimo 1.100 persone. Ma non ha avuto solo questo compito. L'indulto sembrava avere una sola certezza: nessuna concessione per chi stava scontando pena per mafia. Eppure anche il 416bis è stato risolvibile a Napoli. E il meccanismo è semplice. Un meccanismo salva-padrini. Così è accaduto a Giovanni Aprea, boss di San Giovanni a Teduccio, uno dei territori con maggiore presenza camorristica, ma contrastata da molti cittadini di quest'area a forte tradizione operaia.

I legali di Aprea hanno smontato la condanna: prima hanno proceduto con lo scorporo delle due pene che il boss stava scontando: associazione mafiosa e possesso illegale d'arma da fuoco. Poi è arrivata la richiesta di far scattare l'indulto per la pena relativa al possesso d'arma da fuoco. Una volta accettata questa richiesta, il suo avvocato ha chiesto l'applicazione della fungibilità, ossia di scalare dal periodo trascorso in prigione che era stato condonato la condanna relativa all'associazione di stampo mafioso. Come dire si è usato l'indulto sul reato dove era possibile applicarlo per arrivare a ottenere l'indulto anche sul reato che era escluso dalla clemenza. E il boss Giovanni Aprea, soprannominato 'Punt' e curtiell' non per qualche sua abilità con le lame, ma perché suo nonno interpretò la figura del maestro di serramanico nel film di Squitieri 'I Guappi', torna libero. Libero di seguire i suoi affari in un territorio dove la crescita edilizia ha il profilo delle ditte dei clan.

Già prima dell'indulto i boss sono riusciti a risolvere i loro problemi con la giustizia. Pure i protagonisti della guerra di Scampia ce l'hanno fatta: è bastato cancellare 15 righe per fare svanire 80 morti, 80 cadaveri crivellati che hanno fatto inorridire il capo dello Stato e il papa. Vincenzo Di Lauro, figlio del re di Scampia Paolo, arrestato nell'aprile 2004 a Chivasso dopo anni di ricerche, è tornato libero nel giugno scorso per 15 righe e 30 minuti. Quindici righe mancanti nell'ordinanza di custodia cautelare, 30 minuti di ritardo nell'intervento dei carabinieri. Una svista, dicono. Proprio quelle 15 righe sui "gravi indizi di colpevolezza" che servono a tracciare il ritratto criminale di una persona che finisce in manette. Tanto è bastato. E i suoi uomini sapevano, sapevano prima dello Stato della sua uscita. Per avvertirlo e festeggiarlo gli avevano inviato un paio di scarpe, quelle della marca che ha un coltello come simbolo. Vincenzo è sparito in 30 minuti, il tempo necessario ai carabinieri per circondare il carcere e far partire il pedinamento. Prima del giovane Di Lauro era tornato libero Raffaele Amato, boss dei cosiddetti spagnoli, ossia gli scissionisti che a Barcellona hanno creato un secondo impero, rilasciato per decorrenza termini. E Giacomo Migliaccio era stato scarcerato per motivi di salute. Sono considerati due pesi massimi del narcotraffico europeo. Amato è già entrato nella leggenda nera, perché si è arricchito unendo 'munnezza' e droga: trasportava i carichi di cocaina nascosti dentro i camion della spazzatura, lì dove nessun doganiere avrebbe messo le mani. Queste scarcerazioni sono dati fondamentali anche per i ragazzi di camorra: i nuovi affiliati, tutti sotto i 16 anni, vedono che in fondo i capi più scaltri ce la fanno. Comprendono che innescare una guerra di camorra con più di 80 morti, che trasformare la più grande periferia del Mediterraneo, com'è Secondigliano, nella piazza di spaccio più importante d'Europa, tutto sommato ti permette di raggiungere un potere in grado di difenderti persino dal carcere. E di fare tanti soldi.

Quei capitali vanno da Napoli al Nord e poi nel resto del mondo, mentre la spazzatura segue la direttrice opposta. È per questo che il problema rifiuti non è un problema campano e meridionale. Le inchieste provano che in oltre trent'anni centinaia di imprese settentrionali hanno sversato le loro morchie, le parti non metalliche delle auto, i toner delle stampanti, migliaia di altri veleni, avvalendosi delle imprese della camorra e risparmiando in maniera esponenziale sui costi di smaltimento legale. Intere colline sono spuntate dove c'erano pianure e sopra le colline si è pure cominciato a costruire case e villette.

Dopo dieci anni di incapacità a gestire la questione rifiuti, dopo il commissariamento che quotidianamente ricorda l'incapacità campana di esprimere un politico, un dirigente, in grado di coordinare la questioni rifiuti senza essere condizionati dalla camorra. Dopo tutto questo, sembra incredibile ancora raccontarsi l'ingenua fiaba che vede la 'munnezza' un problema napoletano di disorganizzazione e burocrazia marcia. Attraverso il gioco dei rifiuti si è foggiata una classe imprenditoriale fiorente che ha innestato rapporti con la grande industria nazionale e ora è proprio questa forza economica che dopo aver fatto marcire la terra, l'aria, e molti esseri umani di queste zone, impedisce una reale soluzione. Poiché fin quando la situazione rimarrà così insolvibile ed incomprensibile la camorra potrà continuare a intombare i rifiuti d'ogni parte d'Italia in Campania, e continuerà a mischiare i 'propri' rifiuti con l'incredibile silenzio della politica, silenzio che ha il sapore sempre più del consenso.

Le leggi speciali chieste per Napoli sembrano essere quasi un palliativo. La situazione è speciale perché Napoli è una ferita che non riguarda solo Napoli. Nessuno può più affermare: 'Non mi riguarda'. Da qui si innescano economie e contraddizioni che irrorano il resto del paese: dai capitali criminali che altrove diventano legali, sino ai rifiuti che le imprese del Nord hanno sepolto nelle terre campane. Queste guerre di camorra, questa peste dei rifiuti che una parte d'Italia non riconosce come proprie, che ritiene un cancro inestirpabile di un organo che non appartiene al suo corpo, sono in realtà sismi le cui onde si stanno espandendo ovunque.

La Napoli che ha fallito il suo rinascimento, credendo di risolvere problemi antichi battezzando un luogo come autentico e sconsacrando le parti di esso in cui non si riconosceva, questa parte della città, progressista e insieme tremendamente conservatrice, continua ancora a rappresentarsi come ciò che non è, nostalgica di qualcosa che non è mai avvenuto, di una vaga leggerezza offesa dal peccato originale della violenza criminale. Ma occulta colpevolmente a se stessa che l'economia dei clan, composta dai soldati della periferia, ma in grado di versare capitale in ogni territorio europeo, è la cinetica prima della ricchezza di cui gode e del potere che detiene. Ipocrita, quindi, questa distante disperazione di una Napoli che adora sentirsi ferita a morte, ma che in realtà non muore mai.

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La lezione di Gomorra

La lezione di Gomorra

di Gianluca Di Feo

Dopo le minacce decisa la scorta a Roberto Saviano. Per il quale si è mobilitata tutta Italia. Ma ora bisogna colpire il sistema dei boss

 

Lo Stato ha fatto il primo passo: Roberto Saviano verrà protetto. Il Comitato per l'ordine e la sicurezza, guidato dal prefetto di Napoli Renato Profili, aveva aperto la procedura per la tutela armata dopo le minacce contro lo scrittore che ha sfidato i boss tre volte: con il suo libro, con i suoi articoli e con le sue parole. Ma l'eco internazionale che ha avuto l'articolo de 'L'espresso' con la descrizione delle intimidazioni ha spinto anche il ministro Giuliano Amato a intervenire in prima persona. E più della scorta, a garantire l'incolumità fisica dell'autore di 'Gomorra' provvederà il muro di solidarietà che è sorto intorno a lui. Si sono schierate al suo fianco le massime istituzioni campane, dal governatore Antonio Bassolino al cardinale Crescenzio Sepe. Si sono mobilitati tantissimi scrittori, che hanno aggiunto le loro parole all'appello lanciato da Sandrone Dazieri con le firme di Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Umberto Eco in un'intervista al Tg1: "Il caso di Saviano si lega a Falcone e Borsellino. Perché in questi caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo persino i nomi e i cognomi. Si tratta di intervenire preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto". Ma soprattutto c'è stato un coro di sostegno a Saviano da Napoli e dagli altri centri della Campania, la sua terra: quella che lui ha raccontato nelle pagine di 'Gomorra' come vittima di un 'sistema' criminale che distrugge tutto: le persone, l'ambiente, l'economia.

Lo Stato ha fatto il primo passo. Ma adesso è necessario che vada avanti. Perché 'Gomorra' è diventato una denuncia nazionale, che mette sotto gli occhi di tutti l'inarrestabile ascesa della camorra campana e delle sue ramificazioni internazionali. Una denuncia che presto verrà tradotta e pubblicata in 20 paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, e che ha già conquistato le pagine dei quotidiani europei. Roberto Saviano ha scritto tutto quello che ha visto: integra con la sua testimonianza gli atti di centinaia di indagini che non sono quasi mai riuscite a raggiungere condanne definitive. O che sono state vanificate dall'indulto o da evasioni beffa, come quella del boss Lauro scomparso dopo la scarcerazione per un cavillo burocratico. 'Gomorra' ha dato voce a tutti i campani che non si arrendono allo strapotere della criminalità organizzata. Negli articoli de 'L'espresso' la sua denuncia si è allargata all'incapacità della classe politica di dare una risposta: di liberare i cittadini dalla camorra e dall'immondizia, il nuovo oro nero delle mafie. Poi, al fianco del presidente della Camera Fausto Bertinotti, nella piazza di Casal di Principe, la città che negli Novanta aveva il record mondiale di omicidi, si è rivolto direttamente ai padrini, invitandoli ad andarsene. Ecco quale deve essere il secondo passo. Partire da Casal di Principe e dal Casertano, nuovo polmone di capitali finanziari delle cosche che marciano su Roma. E da Secondigliano, periferia disumana diventata centro di traffici mondiali.

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Da Scampia si vede Pechino

Da Scampia si vede Pechino

di Roberto Saviano

I boss camorristi hanno scoperto la Cina prima di tutti. E creato ambasciate e società miste. Che dal porto di Napoli invadono di merci l'Europa

E si racconta che i cinesi sono i napoletani d'Oriente. Nel gioco delle similitudini impossibili o persino dei modelli folkloristici esportati. E pare sia proprio così: la convivialità, la socievolezza, la simpatia d'impatto. Sembrano le stesse. Un'immagine che elimina gran parte dei pregiudizi, anche in una terra dove basta avere gli occhi leggermente a mandorla per essere definito 'o' cinese'. Eppure la diffidenza della comunità cinese sul territorio napoletano è enorme. Una comunità silenziosa, ma che è capace di creare un quasi invisibile impero, molto più invisibile che a Prato piuttosto che a Roma o nel dedalo milanese di via Paolo Sarpi. Quelle sono le Chinatown che si lasciano vedere, ma è a Napoli che si trova il cuore dell'impero.

Il primo rapporto tra una certa economia cinese e l'Occidente non sono i patti, non sono le cene, non sono neanche i contatti diplomatici. Sono i porti a fare il legame. Non è un caso se i colossi del settore dai grattacieli di Hong Kong adesso vogliono fare compere da noi: sognano di mettere le mani sui moli di Gioia Tauro, di Palermo o di Augusta. Ma Napoli è stato il primo porto a diventare completamente cinese, una vera e propria colonia economica, colonia di investimento ovviamente perché di cittadini cinesi non se ne vedono molti.

Il risultato è che non v'è prodotto che non passa per il porto di Napoli: è il punto finale dei viaggi delle merci cinesi, vere o false, originali o tarocche. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile dalla Cina. Ma bisogna fare attenzione ai dati: perché in realtà oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, ma le merci nel porto di Napoli riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti. Basta un tratto di penna sulla bolletta d'accompagnamento per abbattere i costi e l'Iva radicalmente.


La merce deve arrivare nelle mani del compratore subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe ospitare un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. È come se nel porto di Napoli si aprissero dimensioni temporali inesistenti, nei suoi 1.336.000 metri quadrati per 11,5 chilometri il tempo ha dilatazioni uniche.

Proprio in questi pontili opera il più grande armatore di Stato cinese, la Cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la Msc, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di banchina, 130 mila metri quadri di terminal container e 30 mila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito nel centro campano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina: 1 milione 600 mila tonnellate. Quella registrata. Perché almeno un altro milione passa senza lasciare traccia.

Nel solo porto campano, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono 50 mila contraffazioni di documenti: il 99 per cento dei materiali che si infilano in questo buco nero è di provenienza cinese e si calcolano, con riferimento soltanto a questa dogana, 200 milioni di euro di tasse evase a semestre.

Il trucco con cui entra la merce non è complicato, e basta passeggiare qualche settimana la mattina presto tra i container che vengono svuotati o a volte controllati per comprenderne il congegno. Tutto arriva e parte con gli Iso ossia i container. Iso sta per International Organization for Standardization: ogni Iso è regolarmente numerato e registrato con una formula: quattro lettere (delle quali le prime tre corrispondono alla sigla della compagnia proprietaria) - sette numeri - un numero finale. Spesso però ci sono Iso con la stessa identica numerazione. Così un container già ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Semplice, efficacissimo, milionario.

Poteva sfuggire un'occasione del genere ai signori della camorra imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e guerrieri di Scampia sono stati i primi.

Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni prima che Confindustria spingesse gli imprenditori italiani ad andare laggiù. Un rapporto della Direzione antimafia campana mette insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi Marco Polo partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a Taiwan dove Pietro Licciardi, detto 'l'imperatore romano', aveva aperto un negozio con giacche di alta sartoria.

La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito. Nelle fabbriche cinesi si produceva per conto delle migliori marche del mondo, bisognava saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio. Un'industria che produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo stesso marchio. Può produrre il medesimo modello, con l'identica qualità tecnologica mettendoci sopra un logo differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan. Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi. Ricche grazie alla droga e agli investimenti nel tessile, nel turismo e nell'edilizia. Potenti grazie alle batterie di killer ragazzini e di ancor più giovani vedette. Rapide come imprenditori del mercato globale.

Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i camorristi molto prima che per gli industriali italiani. Tutto a partire da quelle macchine fotografiche digitali che hanno 'monopolizzato', secondo le ricostruzioni dei magistrati, il mercato dell'Europa Orientale: la famosa Canon Matic, fatta produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne gestiscono anche l'importazione.


Poi sulla stessa rotta e con lo stesso sistema sono arrivati televisori giganti al plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni griffati. Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche che li realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a Napoli e smaltiti in tutto l'Est della nuova Europa.

Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la predilezione della camorra per le economie del socialismo reale. I clan legati al boss Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere piede nell'allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla frontiera dell'Urss: il pentito Gaetano Conte ha raccontato che i mafiosi russi hanno impedito l'ingresso degli investimenti napoletani. Altra sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi il territorio tutto diventa roba loro.

Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte nella storia adesso cambiano vita per l'ennesima colata. È lì che si riversa l'imprenditoria tessile venuta dall'Asia. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d'Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione crescenti, e anche i primi assassinii.

La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A Napoli fu uccisa la prima 'testa di serpente' individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali a Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze d'alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano così perché importano manodopera. Seguire una testa di serpente significa intravedere una sorta di venditore di bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche. Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada dell'imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le teste di serpente spesso però barano.


Prendono soldi per portare un numero di persone e si presentano con la metà degli uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma le scuse con la camorra non funzionano e le teste di serpente spesso rischiano la punizione finale quando barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da tutti i committenti per un'ordinazione di manodopera, cento operai per ogni fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire fra tutte le fabbriche. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.

Ma non ci sono solamente schiavi. Quella è un'altra immagine che rischia di diventare passato, archeologia industriale come molti dei luoghi comuni sull'economia asiatica. Al quartiere Sanità qualche tempo fa avevo incontrato una ragazzina napoletana che si era messa a lavorare in una fabbrica cinese. Raccontò il suo nuovo mestiere dicendo: "Mi sono messa a fare la cinese". Un tempo il quartiere Sanità era il regno delle fabbriche dei guantai, raccontavano che persino i guanti della principessa Sissi erano stati prodotti in questi vicoli. E ora lentamente arrivano i cinesi, riescono a ridare energia a produzioni di qualità che in Italia sono scomparse per l'aumento del costo della manodopera sentito anche nel lavoro nero.

E per la prima volta in Italia accade la rivoluzione: cittadini italiani iniziano a lavorare per i cinesi, nelle loro fabbriche, e i cinesi stanno cercando con i loro prezzi di far decollare la qualità dei manufatti. Gli imprenditori arrivati dall'Asia cercano maestri per formare i loro artigiani goffi. Pagano meglio dei padroni di Secondigliano per rubare l'arte a quelle maestranze che nei laboratori di Arzano tagliano gli abiti di prima scelta. Capolavori dell'italian style disegnati da sarti famosi e finiti poi addosso a stelle di prima grandezza. Come quando Angelina Jolie comparve sulla passerella degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star.


Quel vestito l'aveva cucito un mastro napoletano, Pasquale, in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli Usa. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. Ed era proprio Pasquale quello che serviva ai cinesi per fare il grande salto. Per diventare più bravi degli italiani. Pasquale insegnava la qualità. Lo usavano per insegnare alle sarte venute dall'Asia. Lezioni clandestine, nascosto nel cofano come un latitante. Mentre al volante c'è un Minotauro con la pistola tra le gambe, perché così si spara più in fretta. Ai camorristi non piace che i cinesi gli rubino l'arte. Mentre invece i clan si sono messi a fare i cinesi. Copiano i loro sistemi economici che danno vita a consorzi di piccole imprese, con gare al ribasso nei costi e nei tempi pur di accaparrarsi una commessa. Con vincoli aperti dal prestito a usura e cementati dalla minaccia. Con lavoranti praticamente senza diritti. È il segreto dell'oro di Las Vegas, la zona industriale nata dal nulla nella periferia nord della metropoli.

E oltre all'import i camorristi fanno l'export. Lo fanno i clan del Casertano. I feroci in grado di monopolizzare il mercato di rifiuti. Esportano spazzatura, morchie così tossiche che nemmeno i criminali vogliono averle in casa. Al porto di Napoli sono stati trovati, come segnala Legambiente nei dossier 2004 e 2005, container zeppi di rifiuti in partenza per la Cina. Materia da intombare in Cina. Un affare florido e quasi inesplorato dagli investigatori: la nuova frontiera di un business che non conosce confini né scrupoli. Ma soltanto guadagni.

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A Napoli ha vinto la camorra

A Napoli ha vinto la camorra

di Giorgio Bocca


La violenza dilaga. Il sistema criminale impera. I cittadini non si ribellano. E sembra ormai quasi scontato accettare la sconfitta dello Stato. Con dolore e pietà

Mi scrive un lettore napoletano che si firma Giovanni Aiello: "Napoli la grande città che dovrebbe ribellarsi alla occupazione camorrista in larga parte costituita da 'napulegni' ovvero da cittadini impigliati nel vizio delle forze delinquenziali. Napoli insomma dovrebbe ribellarsi contro se stessa e questo è francamente impensabile. I potenziali ribelli, i 'napoletani buoni' come li chiama lei, sono davvero pochissimi. Le persone non affiliate, non colluse, non direttamente complici, non economicamente dipendenti, non simpatizzanti o anche non culturalmente contaminate, si contano ormai secondo una mia personale stima nell'ordine delle decine di migliaia. A fronte invece di un esercito fatto di arroganti, insolenti, ignoranti, ipocriti, presuntuosi e sempre più spesso violenti.

Insomma non è che non si voglia ma sono proprio troppi per combatterli. Il tessuto culturale di base è fatto da una trama simile a quella camorristica. E ci se ne accorge semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando la macchina o facendo lo slalom fra le merde di cane nelle strade più belle della città.

A Napoli 'l'altro' è quasi sempre percepito come un intralcio, come un ostacolo alla propria presunta libertà. Tutti si odiano e ciascuno si crede vittima di tutti gli altri. Inoltre questa mentalità è assolutamente trasversale, riguarda i più umili come i più istruiti e si ripropone in tutti gli ambienti, partendo dal profondo e poi ricadendo a cascata sulla città, come una fontana o come farebbe un vulcano. È forse per questo che anche le immondezze che arredano le strade non ci fanno un grande effetto perché Napoli è una città normalmente sudicia e trasandata.

In definitiva io credo che almeno per ora la criminalità abbia vinto. E non perché ci abbia sopraffatto, ma perché noi esprimiamo questo, siamo così. Ma le domando: perché tutti si accaniscono con la mia città? Fa schifo è vero, siamo in cima alle peggiori classifiche, ma lezioni e consigli della Milano dei berluschini e della Roma dei ladroni non ne possiamo accettare. Nessuno mi pare che in Italia abbia ormai il titolo per aprire bocca su nessun altro. Perché Napoli non è un'isola. Siamo tutti in parte corresponsabili dello stesso paese abbandonato".

Ma questo Giovanni Aiello non sarà per caso un mio nom de plume, non sono io che ho intitolato il mio saggio 'Napoli siamo noi'? Dicono che occuparsi della tragedia urbana di Napoli sia opera impossibile. Questa impossibilità sta dietro al rifiut o di molti napoletani di accettare le critiche dei foresti. "Non so cosa sia Napoli dopo cinquemila anni che ci vivo", scrive Rea e ha ragione ma i morti e le immondezze per la strada non può non vederle anche lui. Chi si occupa di questa meravigliosa e orrida città non può separare una cosa dall'altra, non può indagare i misteri e gli accumuli della storia (a Napoli, ha scritto Benedetto Croce, dobbiamo ancora rimuovere le macerie del Duecento) e ignorare i mali assurdi del presente: la città coperta di lordure, gli assassinati per i più futili motivi, le regole del 'sistema' che continua a produrre miseria e la sordida ricchezza dei violenti. Non c'è altro da fare, si direbbe, che accettare questa fine del mondo sempre rinviata, questa anarchia sempre in qualche modo tenuta assieme dalla natura si direbbe più che dagli uomini.

Con dolore e pietà più che con rassegnazione.

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L'esercito criminale

L'esercito criminale

Gli affiliati di camorra sono 2.480. Con i familiari e l'indotto si arriva a 50 mila persone. Dai dati della prefettura, l'allarmante censimento della malavita

Quando a Scampia si moriva una volta al giorno, il governo di allora mise in campo il gruppo interforze. A Napoli polizia, carabinieri, finanza, Direzione investigativa antimafia dovevano scambiarsi le informazioni e colpire i clan con le misure di prevenzione. Dal 2004, secondo dati del ministero dell'Interno, la polizia ha presentato 127 proposte di blocco dei beni per un valore di 400 milioni. Ma una cosa è il ministero dell'Interno, un'altra è il ministero della Giustizia. E senza giudici in aiuto, di quelle 127 richieste soltanto 22 sono state concesse. Nel giro di pochi mesi il Tribunale, con due collegi da tre giudici dedicati alle misure preventive, ha fatto sapere di non potersi più occupare soltanto di provvedimenti patrimoniali. Così il gruppo interforze si è fermato senza che nessuno ne parlasse. In silenzio, come la guerra di Scampia e Secondigliano che intanto continua: 11 omicidi dall'inizio dell'anno.

A Napoli e provincia la polizia schiera 4.500 persone. I carabinieri 3.400. La Finanza circa 2 mila. L'impiego arriva a quattro persone in strada ogni persona in ufficio per la polizia, tranne che per i servizi amministrativi (60 persone), l'ufficio personale (100) e l'ufficio immigrazione. Per i carabinieri la media è di uno a uno: metà in strada e metà in attività logistica e d'ufficio. La camorra conta invece su 1.260 affiliati in città. E 1.220 in provincia. È il censimento aggiornato alla scorsa settimana secondo le mappe consegnate alla Prefettura e al Viminale (vedi tabelle). In tutto 2.480 camorristi soltanto nel Napoletano, in base a indagini già concluse o ancora in corso. Ai quali vanno aggiunti le mogli, i figli, i familiari. E l'indotto: il sottobosco di migliaia di persone che arrotonda lo stipendio, vive, ha trovato lavoro o risparmia grazie alla camorra e alle sue reti commerciali. Le stime calcolano complessivamente a Napoli almeno 50 mila simpatizzanti. È proprio questa la forza di 'o sistema: un fiume di soldi da far correre.


Contro di loro è schierato uno Stato che, a forza di tagli alla spesa ed evasione fiscale, non stanzia più risorse. In città molte pattuglie di vigili non danno multe perché sono finiti i blocchetti. L'ultima moda diffusa in provincia è rapinare le auto e restituirle ai proprietari in cambio di un riscatto. Le indagini però vanno a rilento perché le stazioni locali dei carabinieri non riescono a prendere le impronte digitali sulle macchine restituite: ci sono pochi soldi per comprare i materiali e ancor meno militari che li sappiano usare. Le nuove auto della polizia che stanno per arrivare a Napoli verranno intanto sottratte dalle questure italiane: due per ogni questura. Il Viminale ha da poco invitato tutti gli uffici a ridurre o eliminare del tutto anche il lavaggio delle volanti. "Quelle fatte su Napoli", spiega Giuseppe Tiani, segretario generale del sindacato di polizia Siap, "sono scelte operative obbligate per via della mancanza di investimenti nel bilancio ordinario. Chiudere alcuni commissariati, come è stato annunciato, potrebbe anche servire. Ma non si può sempre operare sull'emergenza. Al 31 luglio 2006 la polizia era sotto organico di 7.984 persone. Entro il 2008, con il turnover, l'organico sarà sotto di 13 mila unità. L'età media dei poliziotti ha superato i 40 anni. La sicurezza dei cittadini è un bene strutturale come fare autostrade. Non si può agire solo sull'onda delle emergenze". Intanto miliardi di euro in tutta Italia finiscono alle polizie private: "Questo è un problema in più. La domanda da porsi è questa: la privatizzazione della polizia costa allo Stato più o meno dell'impiego dei poliziotti?".

F. G.

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