Siena, la Banda dei Quattro che ha detto no
26.07.2006
Siena, la Banda dei Quattro che ha detto no
I Ds senesi hanno rifiutato gli inviti del segretario del loro partito, Piero Fassino, a entrare nel sudoku bancario a fianco di Unipol. Subito additati come isolazionisti e «medioevali», ora possono essere considerati accorti e lungimiranti. Ma perché lo hanno fatto? E quali saranno le loro prossime mosse?
di Gianni Barbacetto
Sarà Siena a salvare la sinistra? Saranno i Ds senesi a salvare il soldato Piero, assediato dagli alleati in nome della questione morale? Perché qui hanno detto no. Un no chiaro e pesante. Sono rimasti fuori dai giochi del gruppo bipartisan lanciato nel grande assalto che doveva conquistare, con una manovra a tenaglia, Antonveneta, Bnl, Corriere della sera. Possono così ambire a rappresentare, di fronte all’Italia intera, la sinistra e i Ds che hanno rifiutato le scalate occulte, le manovre sotterranee, le amicizie pericolose, le commistioni con personaggi poi finiti sotto indagine.
Per capire se Siena riuscirà a salvare il soldato Piero bisogna venire qui, in Piazza del Campo, che ha appena visto il trionfo al Palio della contrada della Torre, restata a becco asciutto per 44 anni. Come a dire: prima o poi, viene anche il tuo momento. Sta arrivando anche il momento dei senesi, finora criticati per il loro gran rifiuto?
In Piazza del Campo, o nelle immediate vicinanze, hanno i loro uffici quelli della Banda dei Quattro, quelli che hanno detto no. Sono i quattro quarantenni che governano Siena: il sindaco Maurizio Cenni, il presidente della provincia Fabio Ceccherini, il segretario dei Ds Franco Ceccuzzi, il presidente della Fondazione Montepaschi Giuseppe Mussari. Sono quattro molto attivi, determinati, potenti. Tutti democratici di sinistra doc. Anche Mussari, che oggi veste impeccabili completi tasmanian da grande banchiere e lavora nel trecentesco Palazzo Sansedoni, ha in comune con il più informale Ceccuzzi una storia tutta di sinistra: entrambi, da studenti, hanno occupato l’università, negli anni della Pantera, quando rettore era Luigi Berlinguer (esistono anche foto che ritraggono Mussari con la kefiah palestinese, raccontano a Siena). Tutti e quattro hanno avuto in tasca la tessera della Fgci, poi quella dei Democratici di sinistra.
E come potrebbe essere diversamente? Qui il partito di Fassino raccoglie senza troppa fatica il 38 per cento dei voti in città e addirittura il 45 in provincia. Di conseguenza, esprime tutte le cariche che contano e tiene insieme, miracolosamente, uno dei centrosinistra meno litigiosi d’Italia, dai socialisti ai bertinottiani. Ebbene, bisogna parlare con la Banda dei Quattro per capire che cosa è successo e che cosa potrebbe succedere. E per comprendere dove finisce la questione finanziaria e dove comincia la questione morale che si intrecciano in questa vicenda di soldi, politica, banche e potere. Di interviste vere e proprie, neanche parlarne. Qui l’ultima cosa che vogliono è riaprire polemiche e ferite dentro la sinistra e dentro i Ds. Sono e vogliono restare uomini di partito. Ma Siena è città ospitale e aperta, che ragiona, si confronta, discute, spiega. Dunque, prima di tutto, ecco i fatti, visti da Piazza del Campo.
Riassunto delle puntate precedenti. Giovanni Consorte detto Gianni – gran capo dell’Unipol, la compagnia assicurativa delle cooperative rosse – decide da Bologna, ma non senza forti sostegni a Roma, di partire alla conquista della Bnl. Per compagni di strada ha una variopinta compagnia di banchieri e finanzieri «padani» (Gianpiero Fiorani della Popolare di Lodi e Chicco Gnutti di Brescia) e di mattonari romani (da Stefano Ricucci a Danilo Coppola), impegnati a loro volta a scalare, a geometria variabile, Antonveneta e Corriere: forse con amici ricchi e potenti che stanno per ora nell’ombra; e non senza irregolarità e reati, almeno secondo la Consob e le procure di Milano e Roma. Ma questo lo si scoprirà solo in seguito.
Consorte vuole dare una grande banca al movimento cooperativo. Non può però farcela da solo: la preda è grande cinque volte il predatore. Infatti di fronte a Bnl (8 miliardi di euro di capitalizzazione in Borsa), Unipol (con i suoi 1,7 miliardi di euro) sembra un topolino che vuole ingoiare un elefante. In più, è in corso una regolare offerta pubblica d’acquisto (opa) delle azioni Bnl da parte di una grande banca catalana, il Banco di Bilbao (Bbva), con l’accordo della maggioranza degli attuali soci italiani. Che fare? Consorte non si dà per vinto e per realizzare la prima grande scalata a debito di una banca chiede aiuto alle banche. Ma prima spera in Montepaschi, che fa riferimento alla stessa area politica. Facendo insieme l’operazione, progettano Gianni e i suoi sponsor, si creerà un fortissimo polo di quella che viene comunemente chiamata «finanza rossa».
Il Monte dei Paschi di Siena non è solo la più antica banca del mondo, è anche un istituto grande e florido, è la più grande azienda della città, è la quinta banca italiana per capitalizzazione di Borsa (quasi 8 miliardi di euro), più di 1.800 sportelli, 27 mila dipendenti in Italia e all’estero, 513,7 milioni di utile netto nel 2004, 153 milioni di utile netto nel primo trimestre del 2005. Un gioiello. «E volevate che lo buttassimo in un’impresa in cui avevamo tutto da perdere e niente da guadagnare?», dicono oggi a Siena.
Sembra preistoria il passato recente, con la banca in mano alla massoneria e gli ingenti (e ingiustificati) finanziamenti a un giovane imprenditore lombardo iscritto alla P2 di nome Silvio Berlusconi. Oggi l’azionista di controllo del Montepaschi, con una maggioranza blindata (il 58 per cento, di cui 49 con diritto di voto nelle assemblee), è la Fondazione Montepaschi presieduta da Mussari, l’unico non senese di questa storia senese: è nato a Catanzaro e l’accento ancora lo ricorda.
La Fondazione , oltre a controllare la banca, è la grande benefattrice di Siena. Non c’è iniziativa culturale, ricreativa, di volontariato – dalle mostre più prestigiose all’ultima scuola di tango – che non sia finanziata dalla Fondazione. Ha un patrimonio di oltre 5 miliardi di euro e ormai solo il 40 per cento dei suoi utili li riceve dalla banca. Negli ultimi quattro anni ha distribuito «nel tessuto sociale» ben 500 milioni di euro, 145 dei quali nel 2004. Facendo i calcoli, fanno 26.700 euro per ogni chilometro quadrato della provincia di Siena.
Di chi è la Fondazione ? È controllata dal Comune di Siena (che nomina otto dei suoi 16 «Deputati generali») e dalla Provincia (che ne nomina cinque). Gli altri tre li nominano, uno a testa, la Curia , l’Università, la Regione. Che c’è di male, dicono a Siena? Il Monte è un bene collettivo, fin dalla sua nascita nel 1472, quando gli furono conferiti gli affitti dei pascoli (i «paschi») per poter finanziare le intraprese dei senesi. Dunque è la collettività a deciderne le sorti. Oggi lo fa attraverso i voti dati al Comune e alla Provincia, che di fatto governano la Fondazione che controlla la banca. Arcaico? «Ma per favore: ci sono fior di banche pubbliche anche in Germania, in Austria, in Francia, in Belgio, e nessuno grida allo scandalo...».
Ma torniamo al sudoku bancario. Consorte chiede aiuto a Siena. Ma Siena dice no. Dalla Fondazione, dal Comune, dalla Provincia, dal Partito, la Banda dei Quattro risponde come un sol uomo: non se ne parla nemmeno.
I conti e la morale. Perché no? «A Siena abbiamo i computer e le calcolatrici. Abbiamo fatto i conti e abbiamo visto che non ci conveniva», rispondono a Palazzo Sansedoni come a Palazzo comunale. «Costava troppo e ci portava in casa debiti e problemi per il futuro. Forse poteva essere conveniente per Bologna, ma non per Siena». Per Unipol, ma non per Montepaschi. «Se oggi, per ipotesi, facessimo una fusione con la più grande banca italiana, Unicredit, la Fondazione Montepaschi sarebbe il primo azionista della megabanca che ne nascerebbe. Nell’operazione con Unipol, invece, avremmo sborsato molti soldi e non avremmo avuto il controllo di nulla. Perché mai dovremmo portare acqua ai mulini di Bologna senza contare niente? Noi abbiamo il dovere di creare valore per i tutti i nostri azionisti, non possiamo inseguire operazioni politiche».
Al gran rifiuto sono seguite le critiche. Poi è successo quel che è successo: le indagini, le intercettazioni, la scoperta che il variegato gruppo degli scalatori stava facendo un gioco comune, le polemiche dentro la sinistra sulla questione morale, le accuse che fosse in corso una sorta di Bicamerale degli affari (questo a te e questo a me, il Corriere a destra, la Bnl a sinistra...). A Siena hanno tirato un sospiro di sollievo. «Non siamo contenti delle disgrazie degli altri, per carità. Né ci piacciono gli attacchi ai Ds, al nostro partito. Ma abbiamo riflettuto: dopo il nostro rifiuto a entrare nell’affare Bnl, da Roma i vertici del partito ci hanno segnati a dito, ci hanno detto che siamo localisti, chiusi, prigionieri della senesità. Eravamo isolati. L’ex ministro Vincenzo Visco ha addirittura dichiarato che siamo medioevali...». Così si sfogano qui, guardando di tanto in tanto Piazza del Campo occupata dai turisti. «Poi è scoppiato lo scandalo, tutti hanno potuto leggere le intercettazioni dei protagonisti delle scalate, comprese le telefonate degli scalatori di Bnl. E allora abbiamo pensato: eravamo medioevali noi, eh?».
«Non avevamo certo la percezione di che cosa ci fosse sotto», spiega Maurizio Cenni, ex funzionario del Montepaschi che si è messo in aspettativa per fare il sindaco, «ma poi leggi le intercettazioni, colleghi, comprendi, e ti detergi la fronte dicendo: meno male che siamo rimasti fuori!». Uno sguardo agli splendidi affreschi delle stanze municipali e poi: «Dicono che noi di Siena siamo presuntuosi: forse è vero, ma sa, qui abbiamo raggiunto un po’ d’esperienza sulle questioni della finanza...». Perché certo il gran rifiuto «è stato deciso con le calcolatrici», ribadisce il presidente della Provincia Fabio Ceccherini, «ma avevamo qualche preoccupazione a proposito dei compagni di viaggio. Li conoscevamo. E non ci convincevano». Aggiungono a Palazzo Sansedoni: «Che senso ha dare 2 miliardi e mezzo di euro a gente come Stefano Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto, Vito Bonsignore, Francesco Gaetano Caltagirone... Carburante per nuovi incendi». Due miliardi e mezzo: è quanto Unipol ha pagato le azioni di Bnl in mano agli scalatori.
«Lo ripetiamo, abbiamo detto no perché l’operazione per noi non era conveniente, ma la domanda che ci siamo fatti è: se ci fosse convenuto, avremmo detto sì? Non lo sappiamo. Non si può rispondere in astratto. Certo è che la Fondazione da tempo sta riflettendo sul rapporto tra etica e finanza. Il 3 settembre ci troveremo a Ravello proprio per continuare la riflessione. Ma noi crediamo che si debba continuare a distinguere tra produzione e lavoro da una parte e rendita finanziaria e pura speculazione dall’altra. Che non si debba premiare queste ultime a scapito dei primi. E siamo convinti che i comportamenti etici, a lungo andare, si trasformino in buona finanza, mentre le operazioni non etiche divengano, alla fine, cattivi affari». Lo ribadisce anche il segretario Ds Franco Ceccuzzi: « La Fondazione non può fare qualunque affare, anche perché una cattiva immagine finisce per produrre cattivi affari».
Flash back con morale (politica). Per capire il gran rifiuto, spiegano qui a Siena, è necessario ricordare che cosa è successo alla banca negli anni scorsi. Bisogna raccontare almeno due storie. La prima si snoda tra il 2002 e il 2003. «Il Montepaschi stava per comprare Bnl. Eravamo tutti d’accordo, Fondazione, Comune, Provincia. Per noi l’operazione era conclusa: le due banche si sarebbero fuse. Era davvero un affare: Siena non avrebbe sborsato una lira, ma avrebbe messo sul piatto le sue azioni; il concambio allora era favorevolissimo: una azione Bnl contro 0,60 azioni Montepaschi. Alla fine, la Fondazione avrebbe controllato il 30 per cento della nuova creatura, mentre i nostri alleati del Banco di Bilbao avrebbero avuto il 15. Poi si misero di mezzo il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il governatore di Bankitalia Antonio Fazio, che bloccarono tutto».
Racconta un testimone diretto, area Ds: «Parlai con il governatore, che pretendeva che la Fondazione si fermasse al 20 per cento e gli spagnoli al 10. Mi disse: “È una buona operazione. Ma Bankitalia non la può autorizzare. Non può permettere che una banca ex pubblica come la Bnl , ora privatizzata, ridiventi pubblica finendo a una Fondazione controllata da un Comune e una Provincia”. Poi aggiunse: “Guardi che questa posizione trova consensi anche dentro la sua parte politica...”. Ora mi è venuto questo pensiero: vuoi vedere che quella sponda a sinistra evocata dal governatore sperava che il Montepaschi, invece di ingrandirsi a Roma con Bnl, finisse nell’orbita di Bologna, verso Unipol?».
La seconda storia è di poco precedente. Nel 2000 Montepaschi s’imbarca nell’avventura salentina. Compra a caro prezzo (2.300 miliardi di lire) la Banca del Salento. Ma erano tempi di bolla tecnologica e Banca 121 (così sarà ribattezzato l’istituto salentino) era considerata un gioiello di banca on line. Finì comunque maluccio: la bolla si sgonfiò, Banca 121 non portò profitti e a Siena arrivò come direttore generale lo stratega della Banca del Salento, Vincenzo De Bustis, sponsorizzato da Massimo D’Alema.
Oggi De Bustis se n’è andato da Siena ed è diventato il numero uno della filiale italiana di Deutsche Bank, grande finanziatrice di Stefano Ricucci e compagnia scalante. Ma la sua eredità a Siena pesa ancora: la Consob il 24 giugno 2005 ha comminato una maximulta a 40 manager (tra cui lo stesso De Bustis) per non essersi «comportati con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei clienti»: avevano venduto, attraverso Banca 121 e Montepaschi, prodotti bancari «strutturati» e complessi, mascherati sotto nomi rassicuranti (MyWay, 4You, Btp-tel, Btp-index, Btp-on line...). Non solo: al Monte dei Paschi è arrivata una doppia condanna, dal tribunale di Firenze e da quello di Brindisi, per mancata trasparenza proprio sui prodotti finanziari MyWay e 4You. Più in generale, la banca di Siena ha dovuto incassare una batosta sul piano della credibilità: per una banca retail, fondata sui piccoli clienti, è stato pesantissimo essere accusati di avere in sostanza imbrogliato i piccoli risparmiatori...
Che cosa s’impara da queste due storie? Morale numero uno: «Perché mai avremmo dovuto comprare Bnl oggi, pagandola il doppio di quanto eravamo pronti a sborsare tre anni fa, e per di più senza ottenerne il controllo?». Quello stesso Fazio che ieri aveva bloccato tutto, oggi è il gran tifoso dell’operazione. Ma Mussari lo aveva dichiarato all’Ansa già prima che la bufera iniziasse, il 30 aprile 2004, al termine dell’assemblea della banca, quando il concambio era alla pari: «Per noi la vicenda Bnl è irrevocabilmente chiusa». Non c’era più convenienza. Figurarsi oggi, con i valori di Bnl gonfiati dalle scalate. E con quei compagni di strada...
Morale numero due: attenti alle proposte che vengono da una certa area politico-finanziaria. «Abbiamo già dato». De Bustis a Siena, come capirete, non è proprio amato. E non è il caso di sostituirlo con un ancora più ingombrante Gianni Consorte. Qui sono tutti dalemiani, in politica, ma quando si tratta d’affari si guardano bene dai finanzieri sponsorizzati da Massimo D’Alema, il vero convitato di pietra di tutta questa vicenda: è lui il grande protagonista silenzioso, che resta nell’ombra mentre l’incauto Fassino dice, ripete, si espone, dichiara, chiede, parla, implora, pretende...
Dopo il gran rifiuto, è arrivata la vendetta. Così interpretano a Siena l’atteggiamento di due esponenti dalemiani, Massimo Bonavita e Nicola Latorre, che si sono astenuti in Parlamento sul cosiddetto «emendamento Eufemi» che vorrebbe porre un tetto del 30 per cento alle Fondazioni nelle banche. Una legge su misura per tosare Siena, che ora ha il 49 in Montepaschi. Latorre, ex segretario di D’Alema, è quello che gli ha fatto conoscere De Bustis. Dopo il voto ha dichiarato: «Le Fondazioni sono il simbolo della conservazione». Poi le intercettazioni telefoniche hanno rivelato (seppure con l’omissis di una telefonata segretata) che era in contatto con gli scalatori.
Ma erano davvero tutti d’accordo, a Siena, contro la scalata? Le intercettazioni hanno rivelato una piccola crepa: Stefano Bellaveglia, dalemiano doc, vicepresidente di M0ntepaschi, è stato registrato mentre l’8 luglio diceva a Chicco Gnutti: «È un’operazione che avrei voluto far fare al Monte, ma non ci sono riuscito, io sto con D’Alema e Fassino, ma bisogna tenere conto del fatto che qui c’è il Comune, la Provincia , e l’azionista, che non la pensano allo stesso modo». Bellaveglia, altro quarantenne simpatico con braccialetto, jeans e gomma americana, appena resa nota l’intercettazione ha smentito ogni disaccordo con la Banda dei Quattro. «A noi non ha mai espresso alcun dissenso», dicono i Quattro. «Certo, poi ha dato un’intervista a l’Unità in cui faceva intravvedere spiragli d’apertura nei confronti di Unipol. E così ci ha fatto perdere due punti in Borsa», commentano a Palazzo Sansedoni.
Fassino al telefono. Occorre a questo punto chiarire un paio di cose. A Siena non sono verginelle. Qui anche i Ds sanno bene, per lunga esperienza diretta, che cosa significhino il potere, la politica, la finanza. Non pensano mica che il denaro sia lo sterco del demonio: sono cresciuti a Palio e Montepaschi... E del diavolo sono perfino soci: il Montepaschi ha il 9,59 per cento di Hopa, la finanziaria di Gnutti, che è addirittura vicepresidente della banca.
Altra caratteristica dei «comunisti» senesi: non hanno alcuna vocazione eretica nei confronti del partito, sono per la gran parte schierati con la maggioranza dalemiana e fassiniana. Però... Però proprio per questo fanno bene i loro conti. E quando c’è da dire no, dicono no. Anche a Fassino in persona, come ha fatto il segretario Franco Ceccuzzi. Sì, Fassino ha telefonato a Siena, per caldeggiare l’alleanza con Gianni Consorte. E come ha fatto Ceccuzzi a disobbedire al numero uno del partito? «Gli abbiamo semplicemente spiegato che la risposta era no, perché l’affare non era conveniente per Siena. Per ragioni di mercato, non per isolazionismo, come hanno invece detto, o perché saremmo medioevali: non siamo affatto contrari alla crescita del Montepaschi, alla sua espansione, magari anche all’estero. Crescerà, la banca. Ma non così».
Chi ha detto no. Bravi ai senesi non l’ha detto ancora nessuno. Nessuno ha loro riconosciuto i meriti di essere rimasti fuori dai giochi sporchi, per intuito o solo per fortuna. Ma non sono soli, in questa scelta. Nei giorni scorsi Fassino – dopo aver ripetutamente difeso la eguale dignità imprenditoriale degli immobiliaristi rispetto agli industriali e aver per qualche giorno traccheggiato sulla richiesta di dimissioni di Fazio, «per non indebolire l’istituzione» – ha respinto al mittente tutte le critiche ricevute sulla questione morale, spiegandole con la concorrenza interna al centrosinistra: alcuni partiti dell’Unione, dalla Margherita all’Udeur, avrebbero alzato la voce per aumentare il loro peso nell’alleanza e rosicchiare voti al primo partito della sinistra. «Per spolpare l’osso dei Ds», come ha sintetizzato Vannino Chiti, il coordinatore del partito.
Ma la storia dell’osso non spiega le preoccupazioni di Romano Prodi, che per primo (in un’intervista al Corriere della sera già il 20 luglio) si è mostrato preoccupato della possibile apertura di una nuova stagione di commistioni tra politica e affari. E poi non spiega gli interventi preoccupati sulle scalate bancarie che sono venuti da dentro i Ds: da Franco Bassanini, senatore eletto proprio a Siena, ma anche da Giuliano Amato, da Roberto Barbieri, da Enrico Morando. Non spiega neppure le cautele di Lanfranco Turci, ieri presidente di Lega coop e oggi senatore Ds, che è venuto a Siena per un affollato dibattito su «Siena, città della finanza».
Non spiega le contrarietà di tanti dentro il sindacato, dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani fino al segretario regionale della Fisac (i bancari della Cgil) dell’Emilia-Romagna, Giorgio Romagnoli, che ha definito quella di Unipol «una cattiva soluzione, non certo un esempio di trasparenza. Un’operazione pericolosissima, azzardata, sbagliata». Non spiega la durezza di Domenico Moccia, che della Fisac-Cgil è il segretario generale, quando afferma che Consorte sta mettendo a rischio il patrimonio materiale e morale delle cooperative e che «la sinistra non può accettare il modello Pretty Woman, film in cui il finanziere interpretato da Richard Gere vuole distruggere un’impresa che sta finanziariamente strangolando per realizzare un’operazione puramente speculativa». La storia dell’osso da spolpare non spiega infine la freddezza nei confronti dell’operazione Unipol-Bnl di una parte dello stesso mondo cooperativo, da Turiddu Campaini di Unicoop Toscana, alle coop dell’Umbria, fino al lombardo Silvano Ambrosetti. C’è insomma tutto un mondo, interno alla Quercia, che non applaude neanche un po’ il boss dell’Unipol Giovanni Consorte, le sue scelte e le sue cattive compagnie. Anzi. Dentro questo mondo ci sono motivazioni e preoccupazioni diverse, ma tutti, con belle maniere, accenti differenti e modi gentili, sono preoccupati di una cosa sola: che la partita giocata da Consorte coinvolga tutto il partito. E magari finisca per trascinarlo nel fango. «È lui il baco», si spinge a dichiarare un Ds senese. Perché Fassino non fa un salto a Siena? In fondo qui di banche hanno esperienza. Fin dal 1472.
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