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Le certezze di Moio: «Zumbo era una persona a disposizione»

REGGIO CALABRIA «Per i lavori grossi Murina faceva riferimento a noi Tegano, e noi ce la spartivamo con i De Stefano e i Condello, come per la Leonia, i Fontana...

REGGIO CALABRIA «Per i lavori grossi Murina faceva riferimento a noi Tegano, e noi ce la spartivamo con i De Stefano e i Condello, come per la Leonia, i Fontana pagavano noi e poi dividevamo con gli altri». Ci ha impiegato esattamente due ore l’esausto pm Giuseppe Lombardo a tirare fuori una frase dotata di senso compiuto e filo logico dalla deposizione del collaboratore di giustizia, Roberto Moio. Voce profonda e poco chiara, dotato della pessima abitudine di impastare le parole e parlare sommessamente, il pentito, nipote del mammasantissima Giovanni Tegano, non si può certo dire uomo dall’eloquio chiaro e brillante. Ma se a rendere ancora più complessa l’interpretazione delle domande che con certosina pazienza il pm gli ripete più e più volte, arrivano anche i problemi di audio della videoconferenza, l’udienza diventa un improbo calvario.
Una battaglia trascinatasi a lungo nonostante le ripetute richieste di rinvio ad altra data, per avere la possibilità di audire in aula il collaboratore, avanzate tanto dal pm Lombardo, come dalle prostrate difese, di fatto «impossibilitate a condurre un controesame decente» – sottolineano gli avvocati – ma che solo dopo ore hanno convinto il presidente Campagna. Ore durante le quali Moio ha tentato di delineare l’autorità e il peso del clan Tegano a Reggio città, attraverso l’evoluzione degli assetti che nel tempo hanno imbrigliato lo strategico quartiere di Santa Caterina e l’avvicendarsi degli uomini che alla sua guida si sono succeduti.
Quello che era il regno di Peppe Lo Giudice, dopo la seconda guerra di ‘ndrangheta è stato infatti affidato dai Tegano a un uomo di fiducia del clan, quel Carmelo Murina già condannato a 19 anni di carcere come “colonnello” degli arcoti. Espressione dei Franco, per averne sposato una delle figlie, ma «arcoto di nascita e di `ndrangheta», sottolinea Moio, Murina era stato scelto come capo di Santa Caterina, «una zona che non è centro, ma è molto importante».
Ma nonostante dello strategico quartiere Murina fosse responsabile, la sua autonomia e indipendenza non era assoluta. Riferimento obbligato era per lui – soprattutto in materia di lavoro ed estorsioni – Paolo Schimizzi, reggente per volere del mammasantissima Giovanni, astro nascente del clan Tegano, ma molto vicino alle giovani leve dei De Stefano, la cui ascesa criminale sarà lo stesso clan a stroncare.
E proprio la scomparsa del rampante «portavoce di Giovanni Tegano», come lo ha definito più volte in passato Moio, creerà prima inquietudine quindi una vera e propria frattura nel clan. «Dopo aver saputo della scomparsa, ci siamo riuniti dietro la chiesa di Archi, eravamo una decina, tutti componenti dei Tegano. Quindi è arrivato Antonio Lavilla a dirci di stare calmi, di aspettare e non prendere iniziative».
Genero di Giovanni Tegano per averne sposato la figlia Saveria, Lavilla oggi imputato al processo “Archi-Astrea”, non è un personaggio di fila. Al contrario, la sua voce – si evince dal racconto di Moio – è ascoltata da uomini di peso del clan, soprattutto in quel frangente in cui la scomparsa del giovanissimo boss fa temere l’inizio di una nuova guerra. Ma – dice Moio – «poi all’interno della famiglia siamo venuti a sapere che Paolo è stato ucciso su mandato di Giovanni Tegano». E probabilmente per questo il conitto – strisciante ma letale – si scatenerà solo all’interno degli stessi arcoti, con i generi dei potenti fratelli Tegano, divisi su due fronti contrapposti che vedono «da una parte Antonio Lavilla e il cugino, storico uomo del clan, Franco Benestare, dall’altra Polimeni, Branca e Michele Crudo». Proprio con quest’ultimo – ricorda il collaboratore – Schimizzi era venuto alle mani poco tempo prima della sua scomparsa. «Per noi, avevano avuto un ruolo nella questione di Paolo».
Ed è negli assetti successivi alla scomparsa del reggente, racconta il collaboratore, che sempre più si delinea il ruolo di Antonio Lavilla come «portavoce di Benestare» e anima imprenditoriale del clan. Quell’anima che permetterà agli arcoti di annidarsi nel cuore di Multiservizi. Una manovra, dice Moio, cui non è stato estraneo il fratello di Lavilla, Maurizio, «che era conosciuto e conosceva tutti, ma aveva un ruolo più esterno. Si occupava delle imprese di famiglia, le macchinette per il caffè, l’edilizia. Una volta mi invitò all’inaugurazione di un suo locale, il Chupito. Chiaramente aveva avuto benefici – soldi, lavori – dal matrimonio del fratello, ma non era parente».
Anni complessi, in cui cambiano gli assetti – «Murina ha iniziato a rispondere a Crudo e Polimeni», spiega Moio a mo’ d’esempio – e lui stesso inizia a maturare l’idea di contribuire all’arresto del potentissimo boss Giovanni Tegano, per smarcarsi da un ambiente che per lui sta diventando poco sicuro. Intenzioni che, sebbene nascoste, devono essere arrivate alle orecchie del clan, che non solo gli vieta qualsiasi contatto diretto con il boss Tegano, all’epoca latitante, ma per bocca di Franco Benestare farà sapere al pentito «attento o farai la fine di Schimizzi». Una minaccia che Moio prenderà molto sul serio, se è vero che il giorno dopo il suo arresto nell’ambito dell’operazione “Archi-Astrea” inizierà a collaborare con i magistrati.
E nell’infinito patrimonio di conoscenze che ha messo a disposizione – ma che tanto difficilmente riesce a esternare – ci sono anche altri personaggi coinvolti nell’inchiesta “Archi-Astrea” con un ruolo ben preciso: quello di aver disegnato parte del labirinto societario dietro cui i Tegano hanno mascherato la propria presenza in Multiservizi. Si tratta di Giovanni Zumbo, ex commercialista e antenna dei Servizi, pizzicato a soffiare informazioni ai clan e per questo condannato a quasi 17 anni di carcere, e del cognato, Roberto Emo. Del loro operato professionale Moio poco o nulla sa. «Non mi interessavo di queste cose», dice.
Ma di Zumbo, il pentito ha un ricordo ben preciso: «Era molto amico di Carmine e Giuseppe De Stefano, io l’ho conosciuto là. Passavamo le serate lì alla villa, giocavamo a carte, c’era un’amicizia. Nel periodo della guerra ci vedevamo spesso». Parole che confermano quanto affermato da un altro pentito di rango, Nino Fiume, nelle precedenti udienze e che testimoniano che Zumbo è sempre stato «uomo a disposizione».

 

 

Tags: 'ndrangheta, de stefano, reggio calabria, massoneria, processo, inchiesta, servizi, condello, scopelliti, mammasantissima, tegano, invisibili, gotha, la santa, zumbo

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